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Rayman Origins ci fece riscoprire il piacere del 2D | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Che roba strepitosa che fu il lancio di Rayman Origins! Quel 2011 era l’anno di Skyrim, L.A. Noire, Arkham City, Deus Ex: Human Revolution, Dark Souls! Ma anche Minecraft, Portal 2, Skyward Sword, roba che più o meno all’unanimità stava gettando già le basi per la futura generazione, roba pesante, da ricordare. Eppure gli occhi erano tutti per l’ultimo gioiellino di Michel Ancel, arrivato otto anni dopo Beyond Good and Evil (che poi lo avrebbe letteralmente divorato, digerito e… ci siamo capiti, col fumosissimo, pluri-congelato seguito) e passando attraverso quella specie di purgatorio creativo che fu la serie Raving Rabbids, tornando protagonista insieme alla sua mascotte.

La pioggia, i lums, le cascate, i fiori rimbalzanti, le fazze di Ray, è tutto un moto perpetuo, sto gioco!

Era una Ubisoft spensierata, che aveva già imboccato la strada di una generazione gloriosa. Il passaggio di testimone tra Prince of Persia e Assassin’s Creed stava andando alla grande, Far Cry 2 era già pietra angolare dell’FPS open world (col terzo capitolo in arrivo l’anno seguente) e la licenza di Tom Clancy continuava a partorire nuovi modi di intendere la guerra virtuale, tra H.A.W.K. e Ghost Recon. Insomma, Parigi era diventata il fulcro del rinascimento videoludico occidentale e mentre gli studi top della software house dettavano anno dopo anno nuove mode, tendenze e standard tecnici (che avrebbero influenzato i successivi dieci anni e oltre del medium) macinando milioni e milioni di vendite, c’erano spazio e possibilità per osare, puntare al prestigio, dando carta bianca a Eric Chahi, che avrebbe tirato fuori dal cilindro il meraviglioso From Dust, o facendo da publisher ad Housemarque per il bizzarro action-platform-Ikarugalike Outland. Giusto per far sentire la loro presenza anche nei mercati digitali in fermento di Live Arcade e PlayStation Network, sempre più fucina inesauribile di nuove idee, palcoscenico da cui sarebbero nate le nuove rockstar della scena indie. Ma questo sembrava ordinaria amministrazione, in confronto alla scelta di sviluppare un nuovo engine grafico da affiancare allo splendente Anvil (base delle grandi produzioni Ubisoft dal 2007 a oggi), creato appositamente per glorificare progetti più piccoli, bidimensionali, nati con chiari intenti ludo-artistici: e il nome non fu scelto a caso.

C’era poi questo continuo ammiccamento irriverente al passato, e i livelli shoot ‘em up ne sono l’esempio lampante!

Una tela su cui i creativi potevano disegnare a mano i propri mondi per poi vederli prendere vita, sbocciare in sensazionali animazioni vettoriali, il gameplay infuso nell’arte come una bustina di the nell’acqua bollente alle cinque in punto, con il ritorno di Rayman pronto a diventare un formidabile showcase per una tecnologia strepitosa come fu UbiArt Frameworks. Guardarlo in movimento per la prima volta fu come scoprire da zero il 2D, la memoria cancellata da un primo livello lussureggiante dalla giocabilità lussuriosa, ammiccante, con la “melanzana” francese che si riscopriva più agile che mai, decisamente POP (come Prince of Persia) tra salti a parete, planate, corse e sane legnate con cui gonfiare (letteralmente) gli sgherri di Big Mama, tutto collegato da animazioni così fluide da perderci la testa, ridendo in preda allo stupore come sacchi pieni di endorfine e rimbalzando qua e là, come quelle note di scacciapensieri che mettevano subito la pulce nell’orecchio: “OK l’estetica pazzesca, ma qui c’è anche una colonna sonora clamorosa”. E ancora oggi Origins ha il fuoco dentro (e qualche altra sostanza strana in circolo), inesauribile come la follia che zampilla dagli occhi spiritati di personaggi che danno continuamente di gomito al giocatore, con quel senso dell’umorismo irresistibilmente slapstick, i Lums che intonano cori a cappella in fondo al mar mentre noi gli andiamo dietro, caratterizzando i maniera incredibile i migliori livelli acquatici che si siano mai visti nel genere (belli veramente eh, non “sopportabili” quando va bene), rendendo finalmente reale e tangibile quell’utopia del “sembra di giocare un cartone animato” che ci si raccontava davanti a certe opere in cel-shading.

Senza contare il delirante multiplayer. Ma poi quant’era bello il mondo subacqueo? E il coretto stile jazz?

Certo, dal punto di vista artistico, Vanillaware era già anni che sperimentava con l’illustrazione nelle sue opere, raggiungendo risultati incredibili senza UbiArt e con una generazione abbondante di anticipo, a cui è però sempre mancata una risonanza internazionale degna di una produzione spesso fenomenale. Ma anche dei meriti e dell’influenza di Rayman Origins ce ne saremmo accorti negli anni a venire, lontani da quel godimento assoluto, quando i sogni del “videogioco d’essai” made in Ubisoft svanirono dopo Rayman Legends (curiosamente il capitolo di maggior successo commerciale dall’esordio nel ‘95) e due gioiellini come Valiant Hearts (probabilmente l’opera ludica più ficcante sulla Grande Guerra) e Child of Light, ridimensionando drammaticamente il progetto e relegandolo a “engine di Just Dance” (e dei Rayman mobile), lasciando che altri raccogliessero quell’eredità ma tenendosi ben lontani dal renderlo open source, come avrebbe voluto quel sognatore naïf di Ancel. Non che certi manici del panorama indipendente l’abbiano così rimpianto, trovando vie traverse per andare anche oltre quello che fu uno degli impatti visivi più riusciti, riconoscibili e capaci di rimanere impressi nella coscienza collettiva di quella generazione. Uno stile da quel momento capace di affiancare e in molti casi sorpassare la pixel art quando si è trattato di sviluppare in due dimensioni; Guacamelee!, Ori, Cuphead ma anche tutta la produzione Image & Form, giusto per citare alcuni dei cult usciti in questi anni che hanno avuto un piccolo, grande debito nei confronti di chi ha avuto meriti tecno-artistici fondamentali nel ritorno prepotente del videogioco bidimensionale sulla scena. Origins fece scuola, trasformando Rayman da eterno outsider a protagonista assoluto di un revival del platform 2D che avrebbe conosciuto, da quel momento, una seconda giovinezza (in concorso con Super Meat Boy, altro gioco che ha meriti enormi in questo senso). E nell’ultimo decennio di genere, nonostante decine di ottimi esponenti tutti degni di essere giocati, quanti sono stati davvero in grado di superare il titolo Ubisoft? Donkey Kong Country: Tropical Freeze forse, se chiedete a me sicuramente Celeste, ma tornare a giocare a Rayman Origins (e anche Legends ovviamente, suvvia) è sempre un’esperienza di una freschezza e di una piacevolezza tattile spettacolari.

E poi “laddroga”, che in questi giochi ci sta sempre bene.

Un immaginario fuori di testa in cui sperimentare un platforming veloce, tecnico, pieno di segreti, chicche, situazioni e invenzioni, sostenuto da un level design che tira uno stage dopo l’altro mentre lo schermo esplode di colori, le casse di suoni e il cuore di puro piacere ludico. E allora auguri Rayman, un brindisi alle tue origini, sperando che le tue avventure su mobile diano la spinta a Ubisoft per farti tornare protagonista anche dove più ti compete, nella mischia, in un Olimpo sempre più affollato, rinascendo per l’ennesima volta!