Outcast

View Original

Racconti dall'ospizio #187 - Tra Oro e Zaffiro non metterci il dito: una Pokéstoria generazionale

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Io con la serie Pokémon ho un rapporto di lungo amore, iniziato fin dagli albori con Rosso, primo videogioco acquistato con i miei soldini di nascosto da mamma e papà, perché solitamente i videogame mi venivano regalati in occasione delle diverse ricorrenze comandate e Rosso no, non aveva la fortuna di essere così prossimo.

Su un Game Boy blu ma non Color, tra cumuli di pile stilo e torce per illuminare lo schermo anche nelle condizioni peggiori, il mio Rosso è stato il “via” a tutti i bambini della classe prima e della piccola scuola di periferia che frequentavo poi, facendo scoppiare la pokémania a Bacoli. Trendsetter fin dalla nascita, insomma.

Dovevo prenderli tutti e invece l’unico catturato ero io.

Per questo un po’ mi dispiacque che ben pochi mi seguirono su Oro, capitolo che fece scattare il vero amore... e non solo. Vastissimo, pieno zeppo di roba da fare, con tantissimi nuovi mostriciattoli da catturare e con un ciclo di giorno/notte e giorni della settimana da esplorare… per un ragazzino di quattordici anni era un po’ come trovarsi di fronte alla vastità di un Grand Theft Auto V, solo un po’ più divertente.

Così pieno di cose che Oro ha avuto anche lui un suo primato. È stato il primo gioco di cui ho comprato una guida strategica per poter scovare, dopo decine di ore, segreti prima ignorati ed è stato, probabilmente, il titolo a cui ho giocato per più ore nella mia vita. Beh, su Hearthstone manca tale conteggio, ma su Pokémon Oro ho superato allegramente le cinquecento ore. Di cui una decina abbondante mentendo ai miei genitori.

A momenti vado a ricominciarlo. Giuro.

Fortuna volle che proprio dopo qualche giorno dall’acquisto di Pokémon Oro mi ammalai di febbre, di quelle alte abbastanza da farti restare a letto ma non troppo da renderti impossibile qualsiasi attività. Insomma: la pacchia. Sfortuna volle, però, che questa passò poco prima dell’iconico incontro con il Gyarados Rosso (il primo Pokémon Shiny!) e no, non potevo tornare in classe con il pensiero che il bestio fosse lì, placido, nel suo lago, ad aspettarmi.

Ecco perché, mentre mia madre - che fortunatamente non legge Outcast - era al telefono distratta con parenti vari, il colpo di genio: sfregare velocissimamente l’estremità del termometro di mercurio sul dorso dell’indice, per alzare artificialmente la barra del liquido metallico fino alla stimabile cifra dei 38 gradi Celsius. Nascondendo maldestramente poi i segni della bruciatura sul dito. Eh, mamma, te l’avevo detto che mi sentivo ancora debole. A casa un altro paio di giorni per sicurezza, a casa un altro paio di giorni indisturbato con il mio Pokémon Oro.

L’introduzione del gioco che introdusse l’altra metà del cielo.

Non ricordo se ebbi invece ancora febbre o meno, ma il secondo videogame a cui più ho giocato nella vita è stato Pokémon Smeraldo, versione riveduta e corretta dei già ottimi Rubino (che avevo) e Zaffiro. Se Oro fu l’amore, con Rubino/Zaffiro/Smeraldo fu vera e propria ossessione. La terza generazione infatti, introducendo numerose nuovi variabili quali le nature, le abilità, la differenza (finalmente!) tra attacchi fisici e speciali e tutta la - complessa da spiegare - genetica dietro ciascun singolo mostriciattolo ha permesso alla serie di compiere il vero balzo verso “l’età adulta” o, per lo meno, di far nascere tutto l’ecosistema competitivo parallelo alla classica caccia a tutti i mostriciattoli e alla conquista di tutte le palestre del gioco singolo.

Grazie alla novità del Game Boy Advance, qualche amico finalmente tornò sulla serie con me, permettendo scambi, scontri e quei passaggi di consigli, opinioni, trucchetti che permettono a un gran bel videogioco di diventare una vera passione anche nella vita vera, in grado di unire e non soltanto di far passare qualche ora di svago.

Smeraldo vide l’introduzione della Battle Frontier, stupendo parco-lotta gigante pieno di attività pazze ma bellissime.

Non è un caso se tutti i titoli successivi, anche quella versione uber-semplificata che risponde al nome di Pokémon Let’s Go Eeve/Pikachu, basano gran parte del sistema di statistiche, level up e breeding dei Pokémon sulle fondamenta dell’immortale terza generazione, che ha visto in Smeraldo e nelle sue numerose attività extra e collaterali forse il pinnacolo della serie per quantità e qualità. Di tanto in tanto, nel corso degli anni e delle numerose - e sempre personalmente gradite! - nuove generazioni Poké, rispolvero il GBA SP (best console ever) e riavvio Pokémon Smeraldo. Così, per un paio d’ore o poco più. Giusto per riassaporare quel “sense of wonder” che nemmeno l’ottimo remake di Pokémon Oro è stato in grado di risvegliare.

Perché in fondo ogni nuovo gioco della serie Pokémon, a prescindere dal design altalenante dei nuovi besti, del riciclo di location o idee o della mancanza di innovazioni tangibili, è questo: il fascino di riscoprire una nuova ma familiare realtà, passo dopo passo, ritrovando di volta in volta qualcosa di confortevolmente conosciuto e qualche altro elemento invece di stimolante novità. Come, ancora una volta, mi sta personalmente accadendo su Switch con Pokémon Let’s Go Pikachu.

Siano santificati gli scarrafoni di Satoshi Tajiri. Sempre.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai Pokémon, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.