Outcast

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Hi, Mr. Schafer (and thank you for being so not italian)

Qualche giorno fa, mentre salivo le scale per raggiungere la sala interviste della Milan Games Week, ero diviso tra un leggero stato d’ansia e il senso di colpa. Ansia, perché stavo andando a intervistare il “guru” dell’edizione di quest’anno, Tim Schafer, che oltre ad essere uno fra i game designer più celebri sulla piazza è anche - come mi è stato fatto notare da qualcuno - “il Martellone del gameplay”.

Qualcuno, sulla sinistra.

Ora, premesso che probabilmente i lettori di Outcast non hanno bisogno del mio compitino, stiamo parlando di uno che è entrato in LucasArts quando ancora si chiamava Lucasfilm Games, guadagnandosi l’impiego attraverso la più geniale lettera di presentazione della storia: una roba che gli addetti alla selezione del personale dovrebbero appendersi in ufficio e fissare per almeno un’ora al giorno, anziché spiare i candidati su Facebook. Uno che, poco più che ventenne, anziché starsene parcheggiato all’università servendo birre part-time, ha contribuito al perfezionamento dello SCUMM e ha lavorato a Indiana Jones and the Last Crusade (OK, la versione action/platform, ma insomma, buttala via): tra l’altro uno dei pochissimi giochi che abbia mai piratato su cassettina all’epoca del Commodore 64, ma sono sicuro che, con tutta la faccenda di Ballblaster, il nostro avrebbe avuto poco da ridire.

In seguito, Schafer ha proseguito nella sua brillante carriera, contribuendo ai dialoghi e alla costruzione degli enigmi dei primi due The Secret of Monkey Island, co-dirigendo Day of The Tentacle (ho già detto che qualche tempo prima aveva pure lavorato al port per NES di Maniac Mansion? No?) per poi prendere in mano il manubrio di Full Throttle e sfondare, infine, le porte del mito con Grim Fandango. E con la carriera di Schafer potrei pure continuare, ma se non ricordo male, prima di partire col pippone, avevo accennato al mio senso di colpa.

Senso di colpa perché, in effetti, io ai capolavori veri di Schafer, ai tempi dell’uscita, non ci giocai. Per tutti gli anni Novanta, sono stato un amighista/consolaro e, in quanto tale, all’epoca, il mio cammino lungo la strada tracciata da LucasArts si era bruscamente interrotto dopo Indiana Jones and the Fate of Atlantis. Quando finalmente son passato al PC - ormai erano gli anni delle prime ADSL - avevo finito col perdere la mano e l’interesse, e mi son risolto a recuperare quei capolavori di Day of the Tentacle e Grim Fandango solo un paio di anni fa, con l’arrivo delle riedizioni per PC, PlayStation 4 eccetera.

Tutto questo per dire che sentivo di non essermi guadagnato i galloni per avvicinarmi a Tim Schafer, figuriamoci - santo cielo - intervistarlo. Non ero degno.

Mi sentivo in colpa, volevo chiedere scusa, dovevo chiedere scusa.

Così, quando alla fine ho aperto la porta della sala deputata alle interviste e mi sono trovato davanti questo signore dall’aria affabile, furba e bonaria assieme, in punta di piedi ho mormorato: «Hello, Mr. Schafer. My english is not perfect, i am sorry for that. Thank you for your time».

Andrea Peduzzi: Quando hai iniziato a lavorare nel settore dei videogiochi, le avventure grafiche erano il genere narrativo per eccellenza. Successivamente, il loro linguaggio ha contaminato tutti i generi: action, stealth, survival horror, GdR. Sembrava che i puzzle fossero l’unico modo possibile per raccontare una storia o spezzare il ritmo: Resident Evil aveva i puzzle, God of War aveva i puzzle, Final Fantasy VII aveva i puzzle. Questo, secondo te, ha avuto qualche impatto sugli adventure propriamente detti?

Tim Schafer: Io ho sempre giocato a giochi d’avventura, fin dalle avventure testuali come Zork o quelle di Scott Adams. Conseguentemente, gli enigmi sono qualcosa che appartiene da sempre al mio concetto di gioco, ed è naturale per me ragionare in termini di puzzle. Di recente si vedono anche giochi basati sulla narrazione che non propongono enigmi, e va benissimo, ma a me piace giocare con gli enigmi, mi piace inserirli nei miei giochi, penso che continuerò sempre a farlo.

Andrea Peduzzi: In effetti di questi tempi i walking simulator, o drammi interattivi, si focalizzano sulle storie senza ricorrere a sfide o puzzle. Apprezzi questo genere di giochi? Ne hai provato qualcuno in particolare?

Tim Schafer: Sono rimasto molto colpito, la prima volta che ho giocato a Gone Home. Ho trovato molto coraggioso il fatto che permettesse al giocatore di concentrarsi solo sulla storia senza preoccuparsi di dover fare altro. Molto spesso, quando noi sviluppatori vogliamo raccontare una storia, sentiamo il bisogno di mantenere coinvolto e interessato il giocatore con altri mezzi. Qualche volta, tuttavia, finiamo per mettere i bastoni fra le ruote alla storia, perché qualche elemento è troppo difficile o non è stato costruito nel migliore dei modi. Gone Home si è liberato di tutto questo, anche se contiene comunque qualche enigma.

Trovo che sia stata una scelta coraggiosa, ed è senz’altro qualcosa su cui ho riflettuto, ma mi piacciono troppo gli altri elementi di gameplay per rinunciarvi. Personalmente penso che non sceglierei di prendere una direzione à la Gome Home nel raccontare una storia, tuttavia la ritengo una strategia di progetto decisamente sperimentale e coraggiosa.

Il Peduzzi e Nando Martellone aspettano un ritardatario Tim Schafer.

Andrea Peduzzi: Ultimamente ho provato diversi drammi interattivi (Gone Home, Virginia, Everybody's Gone to the Rapture, etc.): a mio modo di vedere alcuni funzionano, altri meno. Secondo te, quando si ha in mano una buona storia, quali sono gli elementi di design più importanti per raccontarla al meglio?

Tim Schafer: Per me raccontare una storia coincide con la creazione di un mondo, e conseguentemente col far sentire i giocatori parte di quel mondo. La musica è uno degli elementi chiave per coinvolgere l’utente, così come il design del mondo di gioco. Poi ci sono i personaggi, che per me sono una fra le cose più importanti. Tendenzialmente, credo che sia molto importante far sì che un personaggio in gioco sia il più possibile “reale”, come se avesse una vita anche al di fuori del gioco stesso. Addirittura, come se continuasse a vivere anche quando il gioco è spento.

Andrea Peduzzi: In genere, per fissazioni personali, penso ai videogiochi come a un mix di rito (gameplay) e mito (storia). In particolare, questo discorso vale per le avventure grafiche, con la loro estetica mutuata dalla messa in scena teatrale (il finale di Monkey Island 2: LeChuck's Revenge è un rituale, e in Grim Fandango l’elemento religioso è fortissimo): sei d’accordo con il mio punto di vista? Hai mai lavorato in questa direzione?

Tim Schafer: Personalmente sono sempre stato molto interessato all’antropologia e al folklore, i miti sono molto importanti per me, e credo anche che siano la ragione per cui le storie sono importanti per le persone al di là delle campagne di marketing e delle cose che racconti. Conseguentemente, mito e folklore hanno sempre rivestito un ruolo molto importante nei i giochi che ho sviluppato. Riguardo al discorso sul rito, invece, è un punto di vista interessante, ma non ci ho mai ragionato in questi termini. Ma penso che una buona comprensione del folklore sia molto importante per il game design.

Andrea Peduzzi: Quando penso alla struttura delle avventure grafiche classiche, penso a qualcosa di estremamente complesso. Quando, negli anni Ottanta, tu e i tuoi colleghi stavate gettando le basi del genere eravate solo dei ragazzi: come avete imparato a scrivere puzzle ed enigmi, e a incastrarli efficacemente nella storia?

Tim Schafer: A quei tempi io e i miei colleghi abbiamo imparato il mestiere sul campo, lavorando. Abbiamo sempre disegnato insieme gli enigmi, per poi legarli tra di loro e infine testarli nei nostri uffici. Poi, li facevamo provare anche ad altre persone che gravitavano attorno all’ufficio, osservando con attenzione se si divertivano o se gettavano i controller fuori dalla finestra. Ci siamo fatti le ossa così, attraverso delle prove continue sul campo.

Tim Schafer sostiene Outcast. Fatelo pure voi.

Entrando più nello specifico della progettazione, quando concepisco i puzzle penso a quello che il giocatore ha per le mani in quel momento e a quello che vuole o può fare. Per prima cosa, con i miei colleghi, cerchiamo di immaginare la soluzione più ovvia perché possa raggiungere il suo obiettivo, dopodiché la frammentiamo, la facciamo a pezzi. Facciamo in modo che una chiave non faccia girare il lucchetto, come sarebbe sensato aspettarsi; nascondiamo indizi qua e là, facendo in modo che i giocatori pensino sempre di essere sul punto di risolvere l’enigma. Facciamo sì che abbiano una chiave, o una lettera misteriosa, degli indizi, qualcosa che spinga la loro esplorazione nella direzione giusta, anche se non sanno esattamente cosa devono fare.

Più generale, noi cerchiamo di far sì che ci sia una sorta di sentiero da seguire che vada dall’enigma alla soluzione. Cerchiamo di metterci davvero nella mente del giocatore: che informazioni ha in un dato momento? Quale ritiene che sia la soluzione? E se per caso commette un errore, in che modo gli sarà possibile ritrovare la strada corretta?

Andrea Peduzzi: Sempre in quegli anni, quali fonti – giochi da tavolo, libri o giocattoli classici - hanno ispirato, in termini di meccaniche, il tuo lavoro?

Tim Schafer: Ritengo che tutto finisca per influenzare le tue idee, film e libri hanno sicuramente fatto da ispirazione per i miei primi giochi, ma poi anche giochi sviluppati da altri… ma davvero tutto: viaggi in terre straniere, situazioni sociali e più in generale le esperienze di vita.

Andrea Peduzzi: Se oggi avessi vent’anni, in che modo cercheresti di entrare nel settore?

Tim Schafer: Scaricherei Unreal e Game Maker, guarderei video su YouTube e cercherei di creare il mio gioco e pubblicarlo in qualche modo. Di questi tempi è difficile farsi notare, c’è troppo rumore di fondo, ma cercherei lo stesso di fare quello che voglio, con i miei mezzi, nei limiti di quanto potrei permettermelo.

Alla fine della chiacchierata, Schafer è stato prelevato e accompagnato - assieme con la moglie - fino al ristorante “Da Giannino - l'Angolo D'Abruzzo” dove, mi dicono dalla regia, ha particolarmente apprezzato le olive ascolane, gli arrosticini, la pasta col sugo di agnello, la Centerba, ma soprattutto il Cerasuolo. Frechete!

Ringrazio giopep per aver ricavato dalla registrazione di questa intervista qualcosa di comprensibile, e naturalmente Ilaria per la foto con gli arrosticini.