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Racconti dall'ospizio #161: Gun prova quanto la nostalgia sia una vera canaglia

Fra le tante velleità che caratterizzano la mia esistenza, e che puntualmente si radicalizzano in delle vere e proprie nevrosi, c’è quella dello stare sempre sul pezzo. L’ultimo disco dei Brockhampton (fortissimi ma mica Kanye West, eh), i più recenti eventi politici (sic), il film appena uscito nelle sale americane (gulp) o la serie TV appena trasmessa su HBO (e che arriverà su Sky Italia quando il mio hype sarà ormai scemato già da un pezzo): mi devo appuntare qualunque evento di mio interesse. Una velleità, dicevo, che si trasforma in nevrosi quando poi mi tocca recuperare tutto quanto cumulato. E internet, banalmente, c’entra parecchio con questa smania, che non è mica una mia prerogativa. Ma non è sempre stato così. C’è stato anche un me, seppur anagraficamente infantile e, soprattutto, senza banda larga, abbastanza sempliciotto, la cui esistenza era caratterizzata da abduzioni slegate da ogni nesso con qualunque realtà. Un me che pensava, per dire, che l’idea di Red Dead Redemption, palesata alla stampa specializzata nel 2009, prendesse fortemente spunto da un altro gioco: non Red Dead Revolver, di cui ignoravo l’esistenza, bensì Gun.

Gun è questo open world in terza persona ad ambientazione western, prodotto da Activision e sviluppato dall’ormai neanche troppo compianta Neversoft. Arrivato sugli scaffali europei nel novembre 2005, ci giocai su PlayStation 2 l’estate seguente; a scrocco, come spesso mi capitava ai tempi; a prestarmelo fu Gianluca, amico d’infanzia noto in paese anche come Pomodoro, per via della sua pelle, di un pallore quasi trasparente, che non riusciva a mascherare i suoi momenti di ira, davvero frequenti, e nemmeno il conseguente sangue che gli si convogliava repentinamente in testa, dando al suo volto una colorazione paonazza, davvero molto divertente a vedersi, per via anche del contrasto che creava con la sua stazza brutale – l’unico tredicenne di almeno un metro e settantacinque che io ricordi – che invece avrebbe dovuto incutere timore ai più. Immaginate questo bambino gigante, forte come un toro e facilmente soggetto all’ira, con dei capelli biondissimi che risaltano su un faccione che puoi colorare, a tuo rischio e pericolo, da bianco a rosso: l’incoscienza dei più giovani, si potrebbe dire. Va da sé che Gianluca ha sempre avuto questo debole per i giochi truculenti, di cui era un vero cultore: Dino Crisis lo scoprii tramite lui, per dire, e fu ancora lui ad essermi eternamente grato per avergli prestato il primo God of War. Non mi sorprese affatto, dunque, quando se ne uscì con Gun, che in spiaggia mi descriveva come questo gioco strabiliante «con le puttane e i cavalli e le mazzate e il west e i revolver».

Tutti i beni di cui necessitava un uomo di fine Ottocento in una sola schermata di gioco.

In effetti, Gun era abbastanza spinto, almeno per quelli che potevano essere i crismi di un tredicenne: in una delle primissime scene del gioco, si poteva assistere all’assassinio di una prostituta, uccisa con un colpo di tomahawk, conficcatole nella nuca da un lancio al millimetro di un predicatore a dir poco squilibrato. Ma a restare più impresso nella mia memoria è stato il suo protagonista, Cole, il classico duro di poche parole, il cui cuore tenero viene però puntualmente tradito dalla propensione al grilletto facile. Il mio archetipo ideale, incarnato alla perfezione da Raylan Givens di Justified. Mettiamo le mani avanti, però: Gun è un gioco abbastanza mediocre. Me ne resi conto anni dopo, quando lo ritrovai ad appena 5 euro sullo scaffale dell’usato di Gamestop, per Xbox 360. L’effetto nostalgia era irresistibile, e fui immediatamente abbagliato dalla possibilità di giocare a un vecchio gioco con nuovi mezzi; un processo simile a quanto accade oggi conremaster e remake, se vogliamo.

Non riuscì a superare l’ora di gioco. Terribile. E non parlo mica della predisposizione all’invecchiamento, cui sono soggetti certi giochi piuttosto che altri. Ero nel 2010 e il ragionamento che feci fu: giocare a GTA: Vice City a sette anni dall’uscita non è proprio un’esperienza esaltante, ecco; ma giocare a Gun a quattro anni dalla pubblicazione originale è una tortura. E oggi, guardando qualche gameplay di ambo i titoli per rinfrescarmi la memoria, mi rendo conto di essere d’accordo col ragionamento del mio io di otto anni fa. Sia chiaro, di per sé Gun non è e non stato affatto un gioco malvagio: cavalcare per il vecchio west è un piacere che prescinde da ogni elemento contestuale, sia esso tecnico o di tempistiche. Un piacere che però viene troncato da una modalità di puntamento sbarazzina e poco appagante, a dispetto della possibilità di scelta fra la prima e la terza persona; oppure dai nemici, con anche i più semplici avversari che si tramutano in delle vere e proprie spugne da proiettili, atte a diluire il gioco; o ancora con un backtracking che davvero poco aggiunge all’esperienza di gioco; per finire, poi, con una trama, godibile solo a patto di far fronte a una quantità strabordante di cliché del genere: i cinesi a costruire le ferrovie, la bella, gli indiani e via discorrendo – a dispetto, va detto, di una forte dose di revisionismo storico, incomprensibile agli europei, specie se adolescenti.

I nativi americani dal volto dipinto sono fra le immagini che più mi terrorizzano; per questo faccio proprio fatica a entrarci in empatia, lo ammetto.

Mi chiedo quindi come sarebbe stato se, invece di Gun, avessi giocato a Red Dead Revolver. Probabilmente, in quell’estate del 2006, l’Italia avrebbe comunque vinto il Mondiale e io avrei affrontato in ogni caso la mia futura condizione da ossessivo-compulsivo. O magari, incentivato dallo stare sul pezzo già dall’epoca, sarei impazzito prima del previsto, non arrivando nemmeno a giocarci, a Red Dead Redemption, chissà.

Questo articolo fa parte della Cover Story più veloce del West, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.