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Fahrenheit è un ambizioso minestrone di idee | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Probabilmente al giorno d’oggi la pubblicità nel mondo dei videogiochi conta molto meno rispetto al passato, ma quanto erano coinvolgenti gli spot o i flyer presenti nelle riviste cartacee? Bastava un’immagine azzeccata e uno slogan efficace per far salire la proverbiale scimmia, facendoti desiderare di mettere le mani su un determinato titolo.

In particolar modo, quella di Fahrenheit la ricordo piuttosto accattivante: un uomo con le mani insanguinate che impugna un coltello, lo sfondo di una città innevata, numerose inquietanti scritte rosse e la promessa di farti vivere una storia appassionante, nei panni di un presunto assassino. Per me, che amo il genere crime dove ci sono detective e serial killer vari, poteva addirittura essere il gioco della generazione.

Più si avvicinava la data di uscita del titolo, più le riviste dell’epoca pubblicavano anteprime ricche di informazioni: il giocatore avrebbe controllato di volta in volta diversi personaggi chiamati a compiere determinate scelte, con gli eventi che avrebbero preso una direzione piuttosto che un’altra in base alla decisione presa, e bivi narrativi che avrebbero innescato molteplici finali differenti con relativo alto tasso di rigiocabilità.

Il titolo compare finalmente sugli scaffali dei negozi, spinto da recensioni generalmente molto favorevoli, in cui Fahrenheit pareva addirittura essere l’anello di congiunzione fra videogiochi e cinema. Qualche recensione sottolineava – senza anticipare nulla che possa rovinare la trama, assolutamente centrale in un titolo di questo tipo – che nella seconda parte la trama partiva un po' per la tangente e che, per vedere tutto ciò che il gioco offriva, erano sufficienti solo otto ore.

Tutto ciò aveva minato leggermente i miei appetiti, ma volevo assolutamente provare Fahrenheit. In quel periodo ero ancora uno studente fondamentalmente squattrinato, quindi feci l’unica cosa possibile per potermi gustare almeno un po' il titolo: noleggiarlo da Blockbuster. Il gioco partiva in quarta, e le prime due ore erano assolutamente convincenti: Lucas Kane, un apparentemente innocuo tecnico informatico, si ritrova nel bagno del Doc’s Diner con il cadavere di un uomo ucciso senza apparente motivo. L’unica cosa da fare è scappare a gambe levate, cercando di non perdere lucidità mentale e non lasciare indizi compromettenti, senza attirare l’attenzione di quell’agente che si trova, guarda caso, nello stesso locale a bere una tazza di caffè. Cosa ha spinto Kane ad agire in quel modo e come potrà uscire da un tale caos? Nonostante i soliti problemi di controlli e telecamera, ampiamente diffusi in buona parte dei titoli dell’epoca, l’idea di far luce sul misterioso assassinio, compiuto nella cornice di in una New York perennemente sotto la neve, era veramente esaltante e richiamava vagamente le atmosfere oscure dei film thriller più famosi, con l’assassino braccato dai detective di turno: a questo giro, la coppia formata da Carla Valenti (di origini italiane) e dall’afroamericano Tyler Miles.

La prima parte del gioco vedeva da un lato Lucas Kane cercare di capire cosa lo avesse spinto a compiere un atto così terribile, e dall’altro i due detective impegnati nelle indagini, cercando indizi e prove per rintracciare e incastrare il colpevole, proprio come in un vero film di genere. Qui vengono anche delineati in maniera più o meno approfondita i personaggi: Lucas Kane, uomo introverso e solitario dal passato misterioso, e l’eterogenea coppia di detective che vedeva una Carla Valenti stakanovista e maniaca del lavoro e senza una vita sociale, e dall’altro lato Tyler Miles, un tipo divertente e spensierato nonostante sia cresciuto nel difficile contesto del Bronx, e interessato a lasciare la polizia per trasferirsi in Florida.

Il giocatore vestiva alternativamente i panni di tutti e tre i protagonisti, e la parte “poliziesca” era sicuramente quella più interessante, visto che dalla scoperta di un determinato indizio o dai collegamenti di differenti prove dipendeva sostanzialmente l’esito della trama, che poteva giungere al “game over” in base a come si giocava una determinata scena o se lo stress dei vari personaggi superava il livello di guardia.

Come sottolinearono le recensioni dell’epoca, fu appunto la seconda metà di gioco a compromettere il risultato finale: la presenza di eventi sovrannaturali, bambini prescelti e poteri mistici (con combattimenti aerei in pieno stile Matrix a base di Quick Time Event) scombussolarono le carte in tavola, deviando dalle atmosfere da thriller a sfondo religioso della prima parte. Mano a mano che l’epilogo si avvicinava venivano al pettine tutti i nodi – intesi come punti deboli – di Fahrenheit: incongruenze e forzature più o meno evidenti (vedi la relazione romantica tra due personaggi, assolutamente illogica e gratuita), qualche cliché di troppo, una scrittura generale poco solida, e forse la mancanza più grave: quei bivi narrativi sventolati nelle anteprime che promettevano la rigiocabilità del titolo, con soli tre finali disponibili, che differivano in minima parte fra di loro.

Insomma, tante idee – alcune buone, altre meno – mescolate insieme ma non perfettamente amalgamabili, un po' come la zuppa inglese preparata da Rachel in una puntata di Friends, dove mischiava insieme manzo rosolato, crema e marmellata.

Come per un qualunque film a noleggio, un weekend fu sufficiente per vedere più o meno tutto ciò che il gioco aveva da offrire.

Al netto dei difetti, Fahrenheit ebbe il merito non indifferente di creare un vero e proprio genere videoludico, quello degli “interactive drama", e di proporre dei contenuti fortemente maturi (sono presenti diverse scene hot, censurate nella versione USA, dove il titolo del gioco è Indigo Prophecy). Probabilmente penalizzato dalla sua eccessiva ambizione e dai limiti tecnici dell’epoca, Fahrenheit raggiunse comunque il traguardo delle ottocentomila copie vendute entrando nella collana Platinum e diventò un piccolo cult, gettando le basi per il ben più convincente Heavy Rain e per le successive produzioni Quantic Dream, oltre che per le serie Telltale e Dontnod.

Ho un buon ricordo di Fahrenheit, non solo perché fu uno di quei titoli che contribuì in maniera consistente alla crescita e alla maturità delle produzioni del settore, ma anche perché mi ricorda sempre con un velo di malinconia anni più leggeri e meno pressanti di quelli attuali, dove potevi vagare per le corsie di Blockbuster cercando qualcosa da vedere nel fine settimana, magari facendo solo quello per due giorni, senza l’assillo dei lunedì lavorativi. Ah, poi grazie al titolo di David Cage ho scoperto i Theory of a Deadman, rock band canadese i cui pezzi erano presenti nella colonna sonora.

Nel caso qualcuno volesse toccare con mano il titolo, da qualche anno è disponibile una versione rimasterizzata fruibile sia sui dispositivi Android che iOS, e circa un anno fa è stato pubblicato in versione fisica per PS4 in occasione del quindicesimo anniversario dell’uscita originale, con leggeri miglioramenti nella grafica e nei controlli.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai detective, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.