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Racconti dall'ospizio #216: Cry devil cry, make your mother sigh

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Oddio, da dove comincio? Da un punto a caso o dall’inizio? Boh, proviamo così.

Approssimativamente tra il 1304 e il 1321, al tramonto del periodo Kamakura, Dante Alighieri compone la Commedia, un poema in tre atti redatto in volgare fiorentino che con quelle “c” aspirate e l’umorismo da quattro soldi… beh, lo sapete.

Il racconto parte come il più classico dei buddy-buddy d’avventura, per poi curvare verso l’horror e assumere, infine, i toni dissacranti della stoner novel. Quel mix così bislacco finisce per intercettare talmente bene lo spirito del tempo da diventare un blockbuster, guadagnandosi l’entusiasmo della critica (Giovanni Boccaccio definì l’opera addirittura “Divina”) e lanciando il suo autore nel giro dei pezzi grossissimi.

La Commedia in un artwork di Salvador Dalí.

Qualche anno dopo, più precisamente nel 1971, il cinema action viene scosso dall’uscita de Il furore della Cina colpisce ancora, diretto dal regista cinese Lo Wei e, soprattutto, interpretato da Bruce Lee, che dopo anni di gavetta, conquista finalmente il successo internazionale. Nato da genitori cinesi, Lee aveva tuttavia emesso il suo primo vagito a San Francisco, e in virtù di questa incredibile botta di culo, a diciotto anni aveva potuto lasciare Hong Kong alla volta degli Stati Uniti. Lì sporca il kung fu con rudimenti di pugilato, scherma e altre discipline, fino a creare una tecnica tutta sua, il jeet kune do.

Oltre alle arti marziali e alla filosofia, Lee ama il cinema. Tantissimo. Il padre, Lee Hoi-chuen, era stato un attore discretamente famoso in Cina e il nostro aveva fatto la sua prima comparsata in un film - The Golden Gate Girl - quando aveva appena tre mesi.

Dopo aver accumulato esperienze sul set per tutta l’infanzia e l’adolescenza, un bel giorno, in America viene notato dal produttore William Dozier, che colpito dalle sue abilità, lo ingaggia per serie TV come Il calabrone verde, Ironside, Longstreet, Here Come the Brides, Blondie. Nel 1969 recita nel film L'investigatore Marlowe, ma dovrà tornare a Hong Kong per iniziare il percorso verso il successo: a Il furore della Cina colpisce ancora seguono Dalla Cina con furore, L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente (quello con Chuk Norris er mejo der Colosseo) e I 3 dell'Operazione Drago, che nel 1973 fa il botto pur raggiungendo gli spettatori postumo. Purtroppo, un mese prima dell’uscita in sala, l’attore era stato fulminato da un edema cerebrale (anche se personalmente preferisco la storia del demone raccontata da Rob Cohen).

E Chuck Norris muto.

Sempre nel 1973, mentre la Cina e il mondo intero piangono Bruce Lee, un altro autore asiatico fa il suo debutto dietro la macchina da presa, dopo una gavetta alla Shaw Brothers: il film è The Young Dragons, il regista si chiama John Woo e da lì a qualche anno avrebbe rivoluzionato il cinema d’azione con A Better Tomorrow.

Woo gira le scene di menare con la cura di un coreografo e perfeziona il cosiddetto “gun fu”, arte marziale fittizia e altamente spettacolare che mescola il combattimento ravvicinato con un utilizzo poco ortodosso delle armi da fuoco. Per darvi un’idea, nel caso vi fossero sfuggiti i film di Woo (male!), pensate alla tecnica del John Wick di Keanu Reeves.

Mi avessero toccato la gatta, avrei fatto lo stesso.

Reeves che, guarda caso, ha interpretato un’altro film piuttosto rilevante per il cinema di genere. Nel 1999, Matrix prende l’immaginario delle arti marziali giapponesi e cinesi e attraverso il digitale lo piega alle proprie esigenze narrative.

Evidentemente, Lana e Lilly Wachowski erano delle fan di John Woo, delle produzioni firmate Shaw Brothers e soprattutto di Bruce Lee, che nel film è oggetto di diversi omaggi, a cominciare dalla celebre sequenza del dojo. Diversamente da Tarantino, che qualche anno dopo, con Kill Bill, andrà in una direzione opposta (e se vogliamo più rispettosa), le Wachowski sono partite da un immaginario di per sé altamente spettacolare e si sono divertite a manipolarlo, ribaltandolo, accelerandolo e decelerandolo attraverso la grafica computerizzata e la tecnologia chroma key. Il bullet time era già stato adoperato in passato su presupposti tecnologici diversi, ma da Matrix in avanti diventa un vero e proprio stilema che finirà con l’infilarsi anche in diversi videogiochi.

Simulatore di menare.

Ora, c’è chi sostiene che l’essenza di un artista stia tutta nella sua capacità di assorbire ciò che lo circonda per poi risputarlo in forma di sintesi. Dando retta a questo concetto, facile che tutti i riferimenti che ho elencato fin’ora ronzassero per la testa di Hideki Kamiya mentre lavorava al quarto Resident Evil (not). E ronzavano così forte, mi sa, che alla fine il progetto si è imbizzarrito al punto tale che qualcuno gli ha detto: “No, senti, sai che c’è? Lo chiamiamo Devil May Cry e vaffanculo. In fondo, quelli erano gli anni “à la Resident Evil”: c’erano i dinosauri in stile Resident Evil, il Giappone feudale in stile Resident Evil eccetera eccetera.

Eppure, in mezzo alle telecamere secche e agli enigmi un po’ pretestuosi, Kamiya riesce a infilare un sistema di combattimento complesso che in quel preciso momento - oltre a specchiarsi nel cinema action stiloso - va a chiudere tutto il girotondo iniziato da Capcom all’epoca di Cadillacs and Dinosaurs o giù di lì, quando i giocatori hanno cominciato a farsi su la mano con i vari Street Fighter II e i picchiaduro a scorrimento hanno dovuto adeguarsi.

La prima incarnazione di Dante, su PlayStation 2.

Per restare a galla, il genere ha fregato qualche elemento di gameplay qua e là, pompato la narrazione e, soprattutto, svecchiato quei sistemi di combattimento fermi al salto/calcio/pugno degli anni Ottanta, fino a raggiungere per finezza quelli dei cugini a incontri. I personaggi di Devil May Cry sfrecciano e menano come Bruce Lee (letteralmente, visto che alcune mosse di Dante sono state plasmate attorno al jeet kune do), sfidano la forza di gravità come Neo e maneggiano le armi come Tequila.

E già che abbiamo tirato in ballo le storie, credo valga la pena spendere due parole sul lore del primo Devil May Cry. Tenendo conto di tutta la faccenda di Dante, delle suggestioni infere legate all’immaginario cristiano e dello stile gotico rivisitato, si direbbe che le fonti principali del gioco provengano dall’Europa.

Eppure, basta un paragone per svelarne la giapponesità. Nel 1996, sul settimanale Weekly Shōnen Sunday, inizia la serializzazione di Inuyasha, uno shōnen scritto e disegnato da Rumiko Takahashi e diventato celebre anche dalle nostre parti in via dell’anime trasmesso da MTV. La storia, ambientata nell’epoca Sengoku, gira attorno al mezzodemone eponimo dai capelli bianchi e vestito di rosso, nato dall’unione tra il Grande Generale Cane (Inu no taisho) e la mortale Izayoi.

Inuyasha custodisce nel fodero la spada magica Tessaiga, ereditata dal padre, che all’occorrenza gli permette di respingere gli attacchi del malvagio demone Naraku - il cui nome significa letteralmente “Inferno” - o quelli del fratello/rivale, Sesshomaru, pure lui armato di una spada ricevuta dal padre.

Ora, non ci vuole un genio per unire i puntini: come Inuyasha, anche Dante è figlio di un potente demone, Sparda, e della mortale Eva; brandisce la spada paterna contro Mundus, l’imperatore dei demoni, e ovviamente c’è di mezzo il solito fratello/rivale, Virgil, pure lui fornito di spada. Poi, chiaro che le due storie divergono per ambientazione e snodi, ma la matrice comune è evidente. Senza contare che Dante, proprio quell’altro mezzodemone, ha capelli argentati e veste di rosso.

Coincidenza? Io non credo.

Nel comporre la propria storia, la Takahashi si è rivolta al folklore e alla mitologia giapponesi, oltre che alle tradizioni buddiste e shintoiste: Inuyasha e Sesshomaru sono una variazione degli Inugami, spiriti dalle fattezze canine. Ho motivo di credere che esista una pista ancora più specifica, ma non mi è riuscito di identificarla. Ciò nonostante, nel 2006 Hideki Kamiya ha costruito attorno alla medesima tradizione addirittura un intero gioco, Ōkami, che ha per protagonista il kami del sole, Amaterasu, rappresentato in forma di lupo bianco: con questa direi che pure stavolta, a muzzo e di culo, sono riuscito a chiudere il cerchio.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Devil May Cry e alle pizze in faccia alla giapponese, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.