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L'orgia dell'orda: Dead Rising | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Qualche giorno fa - che potrebbe anche significare “dieci anni fa” se leggerete questo pezzo nel 2030 e assumendo che l’umanità esista ancora, ovviamente - ho comprato in megaofferta superspecialissima l’edizione completa di Dead Rising 4 con tutti i DLC del caso, elegantemente intitolata “Frank’s Big Package”. L’ho fatto, indovinate un po’?, perché ancora non ci avevo giocato, e mi sentivo in colpa considerando che i primi tre li ho tutti più o meno consumati.

Il “più o meno” è legato a una considerazione fortissima e molto provocatoria, ma forse anche no: ho realmente consumato solo il primo, gli altri due non sono un granché e non riescono in alcun modo a replicare la bizzarra magia di quel Dead Rising uscito nel 2006 per Xbox 360, in piena estate, un’estate calda e umida come una sbroffata di sangue che schizza dal corpo di un non-morto decapitato con una motosega. Un’estate durante la quale feci questa cosa intelligentissima di provare ad affettare un tozzo di pane freddo di freezer causando in questo modo uno slittamento imprevedibile dell’oggetto tagliente che stavo impugnando e aprendomi in questo modo un dito; ma io avevo da giocare a Dead Rising, per cui mi fasciai l’arto alla bell’e meglio e continuai ad affettare zombie, finché un paio d’ore dopo non controllai la ferita, la trovai più blu di quanto fosse sicuro averla e corsi in Pronto Soccorso, dove venni ricucito da una dottoressa annoiata e un po’ infastidita dall’idiozia del paziente che si trovava davanti. Ma avevamo appena vinto i Mondiali e tutto sommato andava bene così, andava tutto bene così, anche e soprattutto perché dopo aver goduto per Fabio Grosso mi ero ritrovato in mano la seconda cosa migliore del mondo dopo la goduria per Fabio Grosso: un simulatore di film di George Romero.

Non è questa la sede per entrare nei dettagli di Dead Rising 2 e 3 e per discutere di come aggiungere roba apparentemente fondamentale tipo le combo weapons non sia servito a migliorare l’esperienza ma paradossalmente solo ad allungarla e annacquarla. È invece la sede per parlare di Dead Rising 1, nella sua forma più pura, quella creata da Keiji Inafune per Xbox 360, quella sviluppata per i primi televisori HD che diventava quindi ingiocabile su televisori SD perché le scritte a schermo erano tutte incomprensibili e troppo piccine, quella delle settantadue ore e del restart compulsivo, quella che veniva pubblicizzata come un incredibile esempio della potenza di queste nuove console grazie al fatto che poteva riprodurre decine di zombie contemporaneamente a schermo, quella del Megabuster e degli psicopazzi che sputano fuoco.

Cos’era Dead Rising? Bella domanda, non è facile da spiegare perché aveva una struttura assolutamente folle e basata su limiti di tempo e rigiocabilità all’interno di un classico (all’epoca mica tanto) sandbox di quelli che, normalmente, ti liberano da ogni fretta e pressione e ti lasciano esperire il mondo di gioco al tuo ritmo personale. Era senza alcun dubbio la storia di Frank West, fotografo di guerra, una specie di archetipo dell’americano medio come se lo immaginano i giapponesi, uno dei protagonisti più francamente stupidi e adorabili di quell’intera generazione videoludica; Frank si trovava, per motivi che non vado a rivangare, in un centro commerciale infestato da zombie, e aveva settantadue ore di tempo per scoprire cosa fosse successo. Non perché ci fosse, che ne so, una bomba sul punto di esplodere o un countdown verso l’estinzione; le settantadue ore (che in termini di gameplay erano poi sei) erano semplicemente il tempo che separava Frank West dall’arrivo di un elicottero che l’avrebbe salvato, e la scelta di investigare o meno gli avvenimenti dentro la Willamette Mall stava al giocatore. Dead Rising aveva sette finali possibili (uno “canonico” e sei alternativi), e l’unico modo per vedere quello vero era spremere al massimo il tempo a disposizione e completare una lunga lista di obiettivi. Qualsiasi altro approccio avrebbe portato a un finale insoddisfacente quando non drammatico per il povero Frank.

Dead Rising era quindi una roba simile, che ne so, a Minit, o meglio a Majora’s Mask, un loop continuo e fatto di costanti miglioramenti e piccoli passi avanti lungo una strada che avrebbe portato infine a scoprire La Verità. Ma era anche un po’ Diablo, nel senso che il gioco incoraggiava abbastanza attivamente il giocatore a morire e ricominciare la storia da capo invece che a caricare l’ultimo salvataggio, mantenendo tutti i livelli e gli upgrade e soprattutto la conoscenza di quanto fatto fin lì: molto appropriatamente, morire in Dead Rising non era la fine ma un nuovo inizio, solo che invece di rinascere sotto forma di zombie si ripartiva da capo, più forti e più saputi. Certo era possibile finire tutto il finibile con il primo playthrough, senza mai morire e senza mai fallire un obiettivo, ma parliamoci chiaramente: chi ci è mai riuscito? NESSUNO, ECCO CHI, il bello di Dead Rising era giocare due ore, sbloccare qualche upgrade, finire in un vicolo cieco circondati da zombie, morire male, salvare e ricominciare da capo, sperando questa volta di arrivare in tempo a quell’appuntamento con Isabela.

Il bello di Dead Rising, però, era anche e soprattutto sbattersene di tutti questi problemi e dedicarsi esclusivamente a massacrare di mazzate di ogni genere un’orda di zombie che nei videogiochi non era mai stata così ordosa come nel gioco di Capcom. Dead Rising era sostanzialmente un immersive sim mascherato da survival game, nel quale ogni. singola. cosa. presente nel centro commerciale poteva essere sfruttata per fare qualcosa di divertente, che fosse scaldare una padella sui fornelli per bruciare la fazza agli zombie o correre sul tapis roulant per diventare più grossi o vestirsi da scemo sfruttando uno dei millemila negozi di abbigliamento di Willamette o falciare decine di zombie con un tagliaerba nella speranza di ottenere quell’achievement impossibile che era tipo “uccidi un milione di zombie” (non è vero, erano 53.594). Dead Rising era un parco giochi di cazzate, che ti dava la sensazione di poter continuare a scoprire nuovi giochini a ogni svolta, ed era pure vero che andava così, ancora oggi non sono sicuro di aver sperimentato tutto lo sperimentabile nonostante abbia dedicato a Dead Rising più ore della mia vita di quante ne abbia dedicate a prendermi cura del dito che mi ero quasi mozzato in un impeto di non so bene cosa.

Oggi porto ancora i segni di quel taglio sul mio indice sinistro, una bella cicatrice che mi dà quell’aria vissuta che è propria di chi ha scattato shockanti fotografie in zone di guerra; e porto ancora i segni di Dead Rising, un’esperienza incredibile e irripetibile nonostante, o forse proprio perché, completamente rotta, sbilanciata, ottusa, che ti costringeva a rischiare la vita ogni volta che andavi al cesso a salvare (…) e che dava per scontato che saresti morto male entro mezz’ora dall’inizio del gioco e costruiva tutto un loop di gameplay intorno a questo semplice e spietatissimo concetto.

Forse era un mondo più facile, forse ero io che ero più facile e mi accontentavo di molto meno, ma nessuno, neanche la stessa Capcom, è più riuscita a replicare quella stortissima magia, neanche con il ritorno a Willamette di Dead Rising 4. Ah, che tempi quelli in cui avevo ancora tutte le dita intatte.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle esclusive, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.