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Banshee, come il crimine, senza regole, come le ragazze con il grilletto facile

Questa è la storia di un uomo che un giorno entra in un bar.

Ha la faccia di uno che non vede un pasto decente da troppi chilometri e di chi, di quei chilometri, alcuni non avrebbe voluto percorrerne, per i posti in cui lo hanno portato.

Insomma, quest’uomo entra in un bar.

Il barista è cordiale, cimeli di un passato da pugile alle pareti di legno e una collezione non tanto variegata di bottiglie di whisky dietro al bancone.

Bancone che quasi sicuramente nasconde un fucile al di sotto, del resto siamo nella rurale Pennsylvania e gli uomini dello sceriffo potrebbero non essere più lontani dei problemi che sono chiamati a risolvere.
Il tempo di ordinare, bistecca ovviamente, bagnata da whisky, nemmeno da domandarselo, e la porta si apre di nuovo.

Entra un uomo nel bar.

Il primo non è più solo al bancone, figure speculari in tutto e per tutto, corporatura simile, entrambi hanno visto cose e percorso chilometri, ma chi ormai non lo fa, in questa fetta di mondo che usiamo chiamare America?

La scena si ripete, il barista cordiale, la bistecca servita, questa volta bagnata da una birra per il nuovo arrivato.

Il tempo di scambiare qualche battuta e la porta si apre di nuovo.

Entrano due uomini nel bar.

Postura, tono, aspetto lasciano intendere che non sono avventori comuni, sono lì per l’incasso, sicuramente magro, data l’ora. Teste calde locali che in un’altra giornata l’avrebbero avuta facile. Ma non oggi.

Perché i primi due sono uomini pericolosi.

Per non parlare di quel fucile, che ormai diamo per scontato pronto ad uscire allo scoperto da sotto al bancone del bar.

La colluttazione è rapida, violenta, a spuntarla è l’unico uomo che di quella violenza è vissuto per una vita intera, il primo avventore, il protagonista della nostra storia, l’uomo senza nome.

Riverso a terra, nel sangue, anche il suo commensale, si erano giusto scambiati due parole, ma per certi uomini tanto basta a instaurare un legame di solidarietà virile, quel tipo di legame che accomuna due persone ritrovatesi per caso in una situazione di merda.

Situazione che non farà altro che peggiorare.

Il secondo avventore non era lì per caso, era appena arrivato in città per prendere servizio come nuovo sceriffo e nessuno lo aveva ancora mai incontrato.

Il suo nome era Lucas Hood ma ora non è più nessuno.

Un colpo di telefono e lo scambio è fatto, l’uomo senza nome non è più il criminale incallito appena scarcerato, non è più uno sbandato che ha percorso troppi chilometri e visto troppe cose, ora è Lucas Hood, appena arrivato in città per prendere sevizio come nuovo sceriffo, una copertura perfetta per nascondere il suo vero scopo: trovare la donna che ama.

Sembrerebbe una storia assurda, e così sarebbe in qualsiasi altra parte del mondo, ma in una piccola città sperduta nella Pennsylvania rurale è solo un normale giovedì, se questa città è Banshee.

Buongiornissimo, sangue?

Per capire il Banshee, bisogna fare un po’ mente locale su chi lo ha prodotto.

Cinemax è un canale via cavo USA, di quelli abbastanza sfigati, non blasonato come HBO o Showtime, che negli anni hanno esportato costantemente prodotti di alta qualità. Cinemax, invece, proponeva prodotti testosteronici, tra cui action, horror e softporn.

Banshee, come prima produzione propria, attinge dall’immaginario del suo pubblico e crea uno show che sta insieme su tette, cazzotti, personaggi di poche parole e molti fatti tagliati con l’accetta, buoni vecchi stereotipi, che non fanno mai male quando bisogna caratterizzare rapidamente.

Così abbiamo il vicesceriffo ligio alle regole, quello di colore con un passato da giocatore di football e devoto alla famiglia, la ragazza dagli occhi grandi.

Se non fosse che, data la premessa iniziale della storia, tutto il resto è virato all’eccesso.

“Dai, più di così non le possiamo fa’ vede’ le bocce!” E invece.

L’uomo senza nome (che non avrà nome nemmeno alla fine della serie) non è un ladruncolo qualunque ma, tipo, il miglior ladro del mondo, con un passato in una misteriosa organizzazione governativa specializzata in Black Ops. Interpretato da uno strepitoso Anthony Starr, poi passato agli onori della cronaca come Homelander in The Boys, qui concede un’interpretazione più misurata, pur mantenendo quella faccia da uno che vacilla sull’orlo della psicosi e che può scattare da un momento all’altro.

Ed è proprio ciò che fa, molto spesso.

Non esiste una situazione che non possa essere risolta a pugni, botte, colpi di pistola, calci volanti, rapine rocambolesche, fughe ed esplosioni. Che fa veramente molto ridere, perché tutto ciò lo fa rivestendo il ruolo di sceriffo e la città, invece che autodistruggersi per la repentina immissione di caos, trova una perversa forma di ordine, fino al momento in cui un’altra repentina immissione di caos contrario non lo minaccia di nuovo e quindi è di nuovo il momento di risolvere con un altro eccessivo scoppio di violenza.
Ed è sempre tutto bellissimo.

Come un quadro di Bosch in cui le singole figurine compongono un mosaico più ampio di crimine, esplosioni e violenza.

Tutto sotto controllo.

Similmente, tutti i comprimari sono caratterizzati all’eccesso, come unico possibile contraltare razionale e irrazionale alla caratterizzazione del personaggio principale e agli eventi che gli ruotano intorno.

In pratica, in questa serie, un personaggio “debole” verrebbe macinato dagli eventi come in Battle Royale e le varie eliminazioni di comprimari che vengono fatti fuori, in modo eclatante o spettacolare si verificano solo perché, arrivati ad un certo livello, quelle persone non sono abbastanza top per mantenere il volume di fuoco (calcolato in megatoni) della serie.

Così, uno fra i migliori amici del protagonista, invece di essere un mero espediente narrativo per il cambio di identità, diviene  l’hacker migliore del mondo, a livello di “leggenda metropolitana per gli altri hacker”, e anche una drag queen asiatica.

L’oggetto della ricerca non è solo una principessa da salvare, come una Peach qualunque, è la figlia ribelle del più pericoloso boss della mafia ucraina di New York, che i federali cercano di incastrare da anni, con una passione per il furto aggravato e le doppie pistole che Lara Croft scansate.

Il Villain della serie, il Kai Proctor di Ulrich Thomsen, non è solo il boss criminale della città, ha ramificazioni ovunque, rifornisce di droga e armi un sacco di gente pericolosa ed è un ex Amish sfuggito all’opprimente clima religioso della sua comunità, che ha inspiegabilmente scalato i ranghi della criminalità organizzata, praticamente dal nulla, ha un rapporto morboso con la nipote e come guardaspalle si porta dietro un violento psicopatico esperto di arti marziali. A completare il quadro, i segni particolari: una croce tatuata per tutta la grandezza della schiena e una predilezione per le armi vintage e il Wing Chun.

E ho volutamente tralasciato da questo rapido sommario i neonazisti, i motociclisti, la galleria di galeotti, pendagli da forca, preti armati fino ai denti, indiani e militari che popolano a fasi alterne il sottobosco criminale di una città di piccole dimensioni, su cui qualcuno più sgamato avrebbe potuto articolare intere stagioni di una serie televisiva classica.

Alla fine, è una storia d’amore.

In quattro dense stagioni, gli avvenimenti incalzano a ritmo serrato, ma non solo, il linguaggio si evolve, la narrazione diventa, a modo suo, molto più articolata, i campi si allargano e si arriva addirittura ad avere una fotografia.

Chiaramente, il debito con tutto un certo cinema rimane pesante, a partire dall’incipit, che richiama in maniera non so quanto consapevole Lo chiamavano Trinità e in parte classifica la serie come un western contemporaneo. Ma anche film carcerari, il mai abbastanza omaggiato Distretto 13, momenti da genuino heist movie per poi arrivare a una quarta stagione che sembra quasi proporsi come un True Detective de noantri, con la sua caccia al serial killer.

In questo bagno di sangue che somiglia ad un dipinto fauves, emergono alcuni dettagli con limpida chiarezza, una zona di luce intimista nella quale trova spazio, a modo suo, una riflessione di inaspettata intensità sulla condizione di questi personaggi, che riescono a relazionarsi con gli altri solo scontrandosi, ferendo, derubando.

La verità sugli unicorni racconta di questa invisibile barriera che separa il criminale dalla persona normale, quel blocco emotivo che deforma coscienza e abitudini, che riconduce sempre su strade già battute con esiti disastrosi, parla dell’impossibilità di redenzione e della solitudine incomunicabile.

Lucas Hood non è un vincente, non è baldanzoso, la sua condizione, la sua mancanza di identità, gli pesano e gli impediscono di costruirsi una strada fuori dal ruolo che è costretto di volta in volta ad interpretare, vincolandolo molto più di qualsiasi prigione nella quale è stato confinato per una pena che lui stesso non riesce a scontare mai del tutto.

Attenzione, questa foto potrebbe contenere “metafore”.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a The Irishman e al crimine, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.