Outcast

View Original

Bakemonogatari: c'erano un vampiro, un fantasma, un granchio e un gatto

Sono commosso, la Cover Story di questo mese mi permette di parlare di quella che è, ormai da anni, la mia serie anime preferita e di poter orgogliosamente annunciare, a voi tre che ancora non l’avete vista in quanto rientrati ora da Narnia, che è pure reperibile su VVVVID.

Amici, oggi vi parlo di Bakemonogatari!

Per introdurvi degnamente questo capolavoro dello Studio Shaft, le brutte persone che con Puella Magi Madoka Magica hanno fatto alle maghette quello che Evangelion ha fatto ai robottoni, tradurrò la onesta sinossi che trovate su *coughillatoscurodicough * TVTropes :

Un NSG (Normale Studente Giapponese) e un misterioso senzatetto sono uniti dal destino al fine di aiutare delle innocenti ragazze a liberarsi di apparizioni soprannaturali. Una storia toccante su come superare le avversità grazie alla forza dell’amicizia.

Awwwwwwwwww… regia, prego, contributo.

NON QUESTOOOOOOO!!!

OK, inutile mentire, la serie *monogatari, tratta dai romanzi brevi del palindromo NisioisiN (Nishio Ishin), scrittore con all’attivo una sfilza di successi che va da Medaka Box a Katanagatari, ha come protagonista il peggior pervertito, pedofilo, incestuoso e fedifrago figlio di buona donna che il Giappone animato abbia mai prodotto. Per dare una misura, al confronto di Koyomi Araragi, Ataru Moroboshi è un paradigma di virtù… più o meno.

L’unica qualità positiva di Pedoraragi (uno dei tanti amichevoli soprannomi affibbiatogli da un fandom il cui desiderio, esaudito in quasi ogni arco narrativo, è di vederlo soffrire orribilmente) è quella di non riuscire a ignorare una persona (curiosamente sempre di sesso femminile) in difficoltà. Al punto da salvare la più potente vampira esistente sotto la luce della luna e diventare, per questo suo atto sconsiderato, praticamente immortale.

Da qui in poi, la sua unicità lo metterà a contatto con le più diverse “anomalie” che infestano il mondo e giocano con i destini delle persone: una divinità granchio che ha rubato peso e angosce a un’esile (psicopatica) bellezza, una bambina che non può raggiungere la casa di sua madre per colpa di una maledizione fantasma, un’energica (psicopatica) turbolesbica con il braccio posseduto da un demone scimmia, una (psicopatica) preadolescente maledetta da un dio serpente e una morbidosa capoclasse (psicopatica) posseduta da un dispettoso spettro felino. Oltre ovviamente alla vampira di cui sopra, privata dei suoi poteri e ridotta a una graziosissima bambina con la passione per le ciambelle

Poi, nelle serie successive (per questo si usa il termine *monogatari), avremo vespe di fuoco, fenici, cadaveri animati, nemesi, esorciste manesche, ciarlatani e inquietanti sapientone.

Ogni volta Massacraragi si farà coinvolgere nei loro problemi e ogni volta andrà incontro a laghi di sangue e mari di dolore.

Ah no?

Guadagnandosi però anche l’adorazione quasi incondizionata di queste bellissime e in varia misura (psicopatiche) disinibite ragazze.

Fortunato bastardo!

Solo questo, ovviamente, non basterebbe a giustificare il fatto che io adori incondizionatamente questo anime. La commedia “harem” giapponese, fin dalle origini, ha mostrato bellezze soprannaturali infliggere punizioni corporali praticamente letali a un mediocre quanto indistruttibile giovane maniaco che, una emorragia dopo l’altra, una frattura dopo l’altra, diventava loro sempre meno indifferente. Uruseyatsura aprì la via, Ghost Sweeper Mikami, To Love Ru e il recente La Locanda di Yuna l’hanno seguita.

Quello che fa di Bakemonogatari un, lo dico senza timore di abusare il termine, capolavoro è che ogni componente del prodotto “animazione” viene curato, limato e portato all’estremo.

Andando in ordine crescente di importanza, la prima cosa da citare è la colonna sonora. Ogni arco narrativo (cinque nella sola Bakemonogatari) ha una opening cantata dalla seiyu (doppiatrice) che si occupa di dare la voce alla protagonista dell’arco e, come vedremo tra poco, già questo varrebbe il biglietto. A rincarare la dose abbiamo le ending affidate una dopo l’altra ad Idol di successo o gruppi J-pop come i Supercell, che, con Kimi Shiranai Monogatari (La storia che non sai), si sono schiantati nella mia memoria e nella suoneria del mio cellulare

Infine, ogni (ribadisco) OGNI episodio ha una soundtrack affidata a Satoru Kosaki dello studio MoNaCa, noto da queste parti per una cosetta tipo la colonna sonora di Nier: Automata. Quindi, ogni episodio si appoggia a un tappeto di variazioni, temi, leitmotiv che mescolano elettronica, musica tradizionale giapponese, tango e quartetti d’archi barocchi, per sottolineare scene assurde, drammatiche, comiche o commoventi.

Se non bastasse tanta gioia per gli orecchi, si rincara con un cast di doppiaggio originale che è il Dream Team delle Seiyu/Idol giapponesi.

Chiwa Saito dona alla “prima eroina”, Senjougahara Itagi, la voce pacata, carica di sarcasmo eppure in grado di toccare le corde più profonde dell’animo che avrebbe poi reso indimenticabile Akemi Homura in Madoka Magica. A controbattere, Yui Horie, una veterana con più serie all’attivo che capelli, recita le battute della morbidosa “brava ragazza con un segreto”, Hanekawa Tsubasa. L’entusiasta e impenitente pervertita Kanbaru Suruga trova la sua forza grazie a Miyuki Sawashiro, altra polimorfica veterana che ho già citato parlando di No Game No Life ma che i puristi dei JRPG avrebbero difficoltà a riconoscere nei panni della impassibile Elisabeth di Persona 3. Ancora più sorprendente scoprire Kana Hanazawa, ex-ragazzina prodigio del doppiaggio, capace di muoversi con noncuranza tra i toni della (pericolosamente psicopatica) brava bambina Sengoku Nadeko, alla innocua follia di Shiina “Mayushii” Mayuri (Steins: Gate), giusto per citare due dei ruoli che il pubblico italiano può conoscere dei più di 300 interpretati in 17 anni di carriera.

E vi ho citato solo le prime quattro in ordine di fama.

A salire in qualità, troviamo il lato grafico: lo studio Shaft è noto per la capacità di imprimere una forte personalità alle sue animazioni, indipendentemente dai mezzi a disposizione: per loro, a budget minore corrisponde solo minore dettaglio, non creatività. Da questo derivano due marchi di fabbrica: soluzioni di facile realizzazione e massima espressività che, alla fine sono diventate (forse anche un po’ a ragione) bersaglio dei detrattori a causa dell’abuso, per esempio le sigle stilizzate e lo “Shaft severe head tilt”

Tilt to the max!

Di questo percorso di sperimentazione artistica, nell’ambito delle restrizioni e obiettivi di un prodotto che deve spendere un budget predefinito e ripagarselo, la serie dei monogatari costituisce il loro apice.

A fronte di una cura del character design mirata e persino furbetta, nello sfruttare l’appeal erotico di ciascuna delle protagoniste, ovviamente ricadenti nelle categorie stabilite dell’harem (abbiamo: principessa, sportiva, morbidosa, maschiaccia, viziata, bambola, regina, amicadinfanzia e una quota onestamente preoccupante di varie declinazioni della minorenne… onestamente… preoccupante), ad imporsi all’attenzione dello spettatore, complice probabilmente la creatività trasversale di NisioisiN, sono le scenografie.

Già il fatto che gli episodi si aprano con “slideshow” di testi tratti direttamente dai romanzi dell’eccentrico autore crea un’interferenza (e disperazione per lo spettatore occidentale) nel cercare la “volontaria sospensione di incredulità” difficile da spiegare.

Interferenza rincarata dai continui cambi di registro grafico, da ulteriori scritte stampate tra i fotogrammi a spiegare, rincarare o (tentare di) smentire gli eventi narrati e, infine, dalle scenografie.

Ehr… cosa stavo dicendo?

Le scenografie dei monogatari (con due inspiegabili eccezioni) non sono mai paesaggi e, ancora meno, sono sfondi: sono in alcuni casi espressione dei personaggi, in altri personaggi loro stesse. Vive, surreali, colorate ed espressive. Completamente e volutamente irreali e prepotenti nel loro pretendere il primo piano.

Tutto il lato grafico dei monogatari è, insomma, completamente votato al picchiettare, graffiare e scalfire la “quarta parete” con la grazia e l’understatement di un martello pneumatico. I personaggi, da parte loro, non si fanno problemi, nei dialoghi, a dare il loro contributo.

…appunto.

Ma non ci riescono.

Grazie ad una fra le sceneggiature più ferree che io abbia mai visto, questi assurdi personaggi non perdono mai coerenza con loro stessi e le regole con cui giocano e lo spettatore ne viene avvinto e affascinato. Vuole saperne di più su di loro, vuole ascoltarne di più, vuole vederne di più.

Ehr…

Anche perché sia le loro azioni che, sopratutto, le loro parole innescano riflessioni tutt’altro che banali, impregnate di uno sguardo che filtra dibattiti secolari di filosofia orientale con spesse lenti di una visione contemporanea lacerata tra il rifuggire la massa e la realizzazione dell’inadeguatezza dell’individuo.

Se si pensa che mi stia riempiendo la bocca di paroloni (spoiler: è vero), prendiamo alcuni dei capisaldi dello shonen harem e vediamo come sono affrontati nei monogatari. Cominciamo dall’amore. In monogatari, l’amore è feroce ed egoista: la metà delle eroine di monogatari ama di un amore omicida, quando non genocida. Eleganti come gatte (in un caso, letteralmente), queste ragazze si rivelano prima o poi come leonesse feroci

In questo caso: prima.

Se questo loro amore termonucleare non mantiene la minaccia (fatta in un arco narrativo e, in un certo senso, mantenuta in almeno altri due) di sterminare la razza umana è solo perché, per nostra fortuna, le emozioni feroci che ne vengono scatenate si sfogano sul convenientemente semi-immortale Carnemortararagi.

Sul “fortuna”, ogni tanto, tentenno.

Tale passione totalizzante, che dovrebbe legittimamente spingere ogni maschio sano di mente a ritirarsi in eremitaggio, ha però la naturale conseguenza di donare al solo Bakemonogatari le due dichiarazioni di amore più belle che io abbia mai sentito proferire da una ragazza verso il (fortunato bastardo) ragazzo che ha scelto e di disseminare i vari monogatari di dialoghi capaci di fare venire gli occhi a cuoricino anche a un noto cinico come il sottoscritto.

Vogliamo parlare dell’azione? Dopotutto abbiamo un semi-vampiro, possessioni che dotano le possedute di poteri sovrumani e, argomento che ho trascurato di sottolineare, “specialisti” e prodigi in grado di tenere testa a questi poteri sovrumani.

Oshino Meme… lo specialista.

Ecco. Nei monogatari, l’azione è inutile. Intendiamoci, non è che non esista: per quanto siano parodistiche ed esagerate, i monogatari hanno alcune fra le scene di combattimento tra superumani più “verosimili” che si siano mai viste. Tripudi di evoluzioni in cui superforze si scontrano e producono devastazione di carne, ossa, sangue, ferro e cemento.

Ciononostante, l’azione è proprio inutile.

Gigguk, noto youtuber anglosassone di origini asiatiche, ha giustamente definito Bakemonogatari uno show in cui il protagonista vince le battaglie “parlando l’avversario fino alla sottomissione”. La forza, nei monogatari, non serve a nulla e non è in realtà neanche la capacità dialettica a vincere, visto che Dementararagi difetta abbastanza di entrambe, se paragonato alla totalità dei comprimari.

Ogni scontro mortale viene vinto dicendo l’unica cosa che abbia senso dire.

L’unica verità evidente, che tutti facevano ogni sforzo per nascondersi, perché quasi sempre non è quella verità “risolutiva” tanto amata dagli shonen. È una verità dura da accettare, ingiusta e che molto spesso non risolve nulla ma evidenzia a chi la riceve il fatto che dovrà continuare ad andare avanti. Un po’ meno “puro”, un po’ più ferito ma ancora vivo.

Spoilerando un po’ i seguiti (come se non lo avessi fatto fino ad ora), vi dico che la stagione immediatamente successiva a Bakemonogatari, intitolata non a caso Nisemonogatari (Il racconto dei falsi), fa dell’opposizione tra vero e falso e di cosa sia alla fine più “forte” il suo fulcro, mettendo in campo il personaggio che più conosce l’estensione della menzogna.

Dove ho già visto questa faccia?

Anche in questo caso, non siamo di fronte all’insegnamento tipico degli anime adolescenziali.

Infine, ultimo principio degli shonen ad essere scardinato, il valore dell’eroe. Pessimararagi non è un eroe. Il dubbio fortissimo è che non avrebbe mosso un dito, se non fosse stato in qualche modo ammaliato da queste esistenze e strappato a un autoimposto cinismo che, però, trova la sua giustificazione nel disgusto verso le dinamiche di massa. Koyomi Araragi (che altrimenti vi dimenticate il nome) inizia la sua storia aiutando sconosciute (psicopatiche) a casaccio e la conclude invocando aiuto. Non salva nessuno, alla fine, se non se stesso. Esattamente come da filosofia di Oshino Meme.

Ma non è così semplice e neanche negativo, in quanto “salvare se stessi”, nei monogatari, passa sempre e invariabilmente dal riconoscere quanto si è limitati, quanto si è deboli e inutili da soli, quanto le cose che ci hanno fatto male non possano essere abbandonate perché “ci hanno fatto”, quanto un desiderio puro e limpido sia tossico e inquinato per gli altri, quanto essere “giusti” sia privo di senso se non si è “umani”.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Luigi e ai fantasmi, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.