Outcast

View Original

Attack on Titan - Fatti mangiare dalla mamma

A meno che finora non abbiate vissuto dietro al Cancello Nero di Mordor, la Barriera di Gion Snò o dietro il Wall Sina, siete sicuramente al corrente di Shingeki no Kyojin e del suo ciclopico successo di critica e pubblico mondiale.

In caso facciate parte parte di quella parte di umanità restante (…) e non sappiate nemmeno se questa roba sia commestibile, ecco le coordinate base per raggiungere la serie (…)
Attack on Titan è una fra le serie manga di tipologia shonen più famose ed acclamate di questi anni, con buona pace di altri manga d’azione come One Punch, My Hero Academia e il vecchiotto One Piece, roba per ragazzini.

Sì, l’ho scritto. Roba per ragazzini. Ragazzini di quarant’anni, s’intende.

Shingeki no Kyojin, più conosciuto come l’attacco dei giganti nel bel pàis, che storpia tutto senza colpo ferire (la traduzione dalla titolazione originale sarebbe “Il gigante dell’avanzata/di carica” e non ci sarebbe alcun “Attacco”), è uno straordinario manga dark fantasy ideato da Hajime Isayama e da lui disegnato, a detta di alcuni orrendamente, o “amatorialmente”, a detta di altri, tanto che, nella maggior parte delle vignette, manco ha i fondali, però è indubbio che Isayama sappia quello che fa. Originariamente, fu pubblicato sulla rivista giapponese Weekly Shonen Magazine (di Kodansha), dopo essere stato scartato (clamoroso errore) dalla ben più celebre Weekly Shōnen Jump di Shueisha, che di solito ha un occhio attento per quello che diverrà una trend. La rivista aumentò considerevolmente la tiratura, a seguito del successo ottenuto.

L’attacco dei giganti, nell’edizione italiana, è invece edito da Planet Manga. Mi sembrava fosse lecita una marchetta wikipedizzante la più completa possibile.

Il numero 10 della rivista Bessatsu Shonen Magazine offriva un omaggio davvero simpatico. L’illustrazione di copertina richiamava palesemente la locandina del film cult Breakfast Club, scritto e diretto da John Hughes e uscito nelle sale statunitensi nel 1985.


Da dove partire, esattamente?

Perché AOT piace così tanto al pubblico e alla critica?

Perché stimola mezzo mondo di cosplayer a fare il saluto ad ogni fiera di fumetti?

Perché è assolutamente strepitoso l’adattamento anime, a cura di WIT Studio?

Andiamo per ordine e per grado. O, almeno, proviamoci.

Shingeki no Kyojin narra la storia di Eren Jeager e dei suoi due amici d’infanzia, Armin e Mikasa, costretti a vivere in un mondo apocalittico palesemente militaresco, in cui l'umanità si trova sull'orlo della completa estinzione, costantemente posta sotto la minaccia di enormi giganti mangia-uomini, la cui origine è avvolta nel più fitto mistero. Non si sa da dove questi esseri enormi vengano, non si sa quanto possano vivere, non si sa di cosa si nutrano, non si sa perché di notte alcuni smettano di muoversi e altri no.

Non si sa praticamente nulla. Ed è questo il bello di SnK.

Questi esseri titanici sembrano non provare alcun interesse per le altre forme di vita del restante mondo. Sembra infatti divorino solo ed esclusivamente gli uomini per il semplice gusto di ucciderli, come se questi giganteschi esseri fossero predatori naturali dalla razza umana.

Per proteggersi da questi minacciosi titani antropofagi di altezza variabile, che li rende nemici genuinamente terribili, gli umani hanno edificato all’esterno dei territori controllati, che comprendono città, villaggi, ma anche foreste, laghi, campi elisi e montagne innevate, un’enorme tripla cinta muraria di oltre cinquanta metri di altezza: il Wall Rose, il Wall Maria e infine, il Wall Sina.

In questo mondo oscuro e violento, che ricorda molto da vicino l’epoca buia, l’uomo non rinuncia del tutto ai suoi sogni di libertà e istituisce, coerentemente a tale sentimento, un gruppo militare di ricerca ed esplorazione per le zone esterne alle mura. Il suo compito è scoprire l’origine dei giganti, studiarli (qualora possibile), ucciderli (qualora possibile), catturarli (qualora possibile) e liberare (qualora possibile) nuove zone abitabili dal genere umano. Un compito ingrato.

Gli emblemi gloriosi dei tre gruppi militari protagonisti alla base della storia. Il Corpo di Guarnigione, La Legione Esplorativa e, infine, Il Corpo di Gendarmeria. Ogni ordine militare ha precisi compiti nella storia e Isayama è davvero abilissimo ad intrecciare i loro destini.

A questo canovaccio, Isayama aggiunge, infine, l’elemento che mette in moto tutta la sua complessa struttura e fa decollare tutta l’opera, mettendo in trepidazione gli otaku di SnK di mezzo mondo: il carattere palesemente “shonen” dell’intera produzione. I temibili giganti divoratori possono essere abbattuti solo se colpiti in una specifica zona del loro corpo deforme ed asessuato, di circa un metro di lunghezza, posta alla base della loro nuca glabra. Preferibilmente, utilizzando un’arma tagliente che asporti suddetta porzione, come quando si taglia una fetta di cocomero.

Per compiere questa pindarica azione, il corpo di spedizione viene quindi fornito di complessi meccanismi di manovra tridimensionale, definito ATM, una sorta di imbragatura di cinghie e metallo che sostanzialmente spara dei cavi con tanto di arpione, attraverso un particolare sistema propulsivo. Tale aggeggio permette loro di agganciarsi a superfici solide (come muri o tronchi di albero) e li rende dei provetti samurai-volanti, proiettandoli nei cieli tersi e decolorati, per poi farli abbattere rovinosamente sui colli di questi autentici scempi fisiologici. Ecco puntuale la minchiata, insomma, altrimenti il manga non avrebbe venduto cinquanta milioni di copie in tutto il mondo, e altresì, non entusiasmerebbe i cosplayer di mezzo mondo. Diciamolo onestamente.

Con queste premesse funamboliche, realizzate molto bene nella serie anime, meno nella controparte cartacea, per linee dinamiche e retini piuttosto poveri, Eren e gli altri membri di questa sorta di squadra per la salvezza dell’umanità - a voi scoprire gli eventi peculiari che portano il nostro dinamico trio a farne parte - iniziano la loro lotta finale contro i ciclopici giganti. Assieme ai loro amici e compagni cadetti, combattono, muoiono e soffrono, in quella che sembra fin da subito una battaglia molto iniqua e sproporzionata per forze in campo. Un conflitto feroce, apparentemente senza fine, contro un nemico invincibile, numeroso ed inarrestabile.

I tre protagonisti de L’attacco dei giganti: Armin, Eren e Mikasa. Anche se molto presto ci sarà una coralità d’insieme molto più interessante che l’idea del solito e stereotipato un trio di eroi pressoché invincibili.

La prima cosa che colpisce nel manga è la condizione in cui versa l’uomo, a dir poco pietosa. Non ha realmente alcuna situazione sotto controllo, compie enormi sforzi e sacrifici e non ottiene quasi mai risultati concreti. Muore e soffre, senza raggiungere alcun apparente beneficio. È fortemente demotivato, spaventato e spesso inadatto ad ogni compito che gli viene assegnato. Protagonisti compresi (piccola eccezione per Mikasa, la ragazza del gruppo di eroi).

“Gli eroi sono eroi solo a parole”, recita un vecchio poema del periodo tardo medioevale.
E leggendo Attack on Titan, ne appare chiarissimo fin da subito il significato: sono tutti inadatti ad affrontare i Titani/Giganti.
Attack on Titan non è altro che un quadro moderno, quasi pornografico, della società liquida attuale, che si affanna a trovare soluzioni a problemi impossibili, quali convivenza, condivisione degli stessi spazi, tolleranza, corruzione, immigrazione e problemi associati a queste spinose questioni che da sempre vessano il genere umano.

Nonostante l’opera sia stata tacciata di essere un manga romanticamente legato all’Impero giapponese della Prima Guerra Mondiale (a mio avviso un’autentica sciocchezza, in un ottica prettamente sbagliata di forzata e parziale contestualizzazione) Attack on Titan è un manga molto più interessante di quanto possa sembrare all’apparenza. Lo è perché racconta (pur con qualche ingenuità “shonen” di fondo) di tutti noi. Racconta della guerra e delle guerre dell’uomo, degli orrori che conseguono a scelte eroiche, delle ideologie sbagliate, delle discriminazioni, dell’abuso di potere e molto altro. Ancora una volta, il primo nemico da abbattere è quello dentro di noi, non quello esterno alle mura.

Shingeki no Kjojin è anche la classica opera di un attento patchwork otaku, che chiunque mastichi un pochino di manga e anime non può certo non riconoscere, specialmente nei toni generali in questa prima effusione al genere da parte di Isayama (o seconda, se consideriamo anche il manga one-shot). Ci sono spunti tratti più o meno dichiaratamente da Devilman e dai celebri Kaiju movie del Sol Levante, ci sono riferimenti importanti al genere Tokusatsu, ci sono spunti brillanti tratti da Evangelion e persino dai doujin-soft giapponesi che all’epoca ispirarono, non poco, l’autore. Ci sono anche rimandi all’iconografia tardo medioevale e persino il Watchmen di Moore e Nausicaa finiscono dentro questo frullato ipercinetico, dannatamente convincente.

È facile riconoscere, del resto, i rimandi più o meno debitori del manga. La squadra di Ricerca/Esplorazione di Eren assomiglia, seppur vagamente, ai celebri e amati Falchi di Griffith/Grifis, l’albino co-protagonista e nemesi in Berserk. A ben pensarci, ci sono analogie importanti: Isayama imbastisce un gruppo affiatato di giovani ragazzi, pieno di buone speranze e sentimenti ben delineati, poi li stermina senza alcuna pietà, quasi come accadde nell’indimenticabile Eclissi di sangue di Gatsu & Co. che causò tanti traumi ai lettori dell’inossidabile Kentaro Miura.

A margine di ciò, molti hanno liquidato l’intera idea di Isayama come una sorta di rip-off del filone zombesco, creando ad hoc il classico meccanismo di “Barricamento”, dove Eren e i suoi amici sono confinati in un luogo da una minaccia esterna e devono difendersi da essa ricorrendo ai soliti cliché. Una lettura piuttosto imprecisa, se analizziamo persino i co-protagonisti indiretti della vicenda.

I Titani/Giganti, pur sembrando a tutti gli effetti “zombi”, sono piuttosto lontani dall’iconografia classica del filone dei morti viventi di Romero e successori. Prima di tutto, non sono creature non morte ma anzi, sono esseri in grado di esprimere una terribile e famelica vitalità, dotati di un invidiabile sistema rigenerativo e di una forza spaventosa, cosa che li allontana notevolmente dai classici zombi.

Era inevitabile che Attack on Titan generasse cloni più o meno riusciti. Koutetsujou no Kabaneri, a conti fatti, è molto simile ad AOT: i Kabane sono zombi con gli steroidi, non sono poi così dissimili dai Titani, ed entrambe le origini di questi mostri sono ugualmente avvolte nel mistero. Gli insediamenti fortificati di Koutetsujou no Kabaneri, sebbene sia ambientato in un Giappone steampunk, sono simili al territorio fortificato di Attack on Titan. I personaggi principali delle due serie hanno una storia di origine simile e sono intenti alla vendetta…nonostante questo, aspetto la seconda serie di questo clone (perché mi ha convinto).

I titani deambulano nudi, con sorrisi ebeti e sguardi vitrei ed acquosi, con corpi grotteschi ed inquietanti, dalle geometrie fisiologiche sbagliate e fastidiose. Questi giganti asessuati che ciondolano pigramente divorando persone, senza spiegazione alcuna, non fanno altro. Mangiano esseri umani per il semplice gusto di ucciderli non per questioni alimentari o di sopravvivenza. E quando hanno lo stomaco pieno, li vomitano al suolo in disgustose e limacciose palle di gelatina. Sebbene la loro figura ricordi moltissimo i cadaveri redivivi di romeriana memoria, i celebri zombi vengono infatti sostituiti da minacce altrettanto spaventose, persino più inquietanti. Viste alcune soluzioni artistiche adottate da Isayama, che raffigura questi esseri con impeccabile gusto grottesco, che ricorda da vicino l’arte surrealista più spericolata ma anche antichi tormenti dell’arte pittorica di Francisco Goya, i titani fanno sommariamente più “paura” degli zombi, perché sembrano quasi indifferenti all’orrore che provocano. Non è la malvagità che domina le loro azioni, non è la ragione, non c’è perfidia, quando ti mangiano. E questo è particolarmente inquietante.

I rimandi più o meno espliciti al genere sono del resto disseminati in ogni singola pagina dell’opera, eppure Attack on Titan è, a suo modo, molto originale. Sotto l’apparente superficie, che chiaramente attira più il lettore tipico di shonen rispetto a quello che cerca qualcosina di più articolato e profondo, AOT è un’opera molto interessante, forse uno degli migliori manga in circolazione. È un espediente quantomeno rischioso, quello che Isayama offre sul piano narrativo: Attack on Titan non è un’opera dichiaratamente manga-shonen, sembra piuttosto tentare di strappare il lettore ai lidi adolescenziali, a cui è abituato e dietro cui si difende, come Eren e soci, per portarlo ad affrontare i veri titani dell’uomo, dall’alba dei tempi. E quelli sì che mangiano intere popolazioni con indicibile violenza.

Da un'idea originale, seppur da shonen per quattordicenni, si è arrivati a un manga fortemente politico, con riflessioni sociali ed antropologiche che pongono quesiti esistenziali e filosofici sull'esistenza della natura umana e sulla sua storia. Si era cominciato con stereotipati ragazzini caratterizzati decentemente (l’indefesso ribelle, l’ultrasensibile, la dura che mena), confinati dentro a un utopico medioevo alquanto avanzato (per certi versi), che decidevano di intraprendere una carriera militare a seguito di drammi di carattere personale. E si è arrivati ad un quadro complessivo decisamente inaspettato. Non è certamente La storia dei tre Adolf di Osamu Tezuka, chiariamoci, ma è uno shonen con qualche momento più adulto del suo stesso genere di appartenenza. Si potrebbe definire Attack on Titan persino un manga di formazione, per certi versi.

C’è davvero moltissimo da dire già dalle idee preliminari, sia per quello che riguarda l’ambientazione che le tematiche iniziali. Le ambientazioni suggerite dall’autore ricordano molto da vicino le suggestioni di agglomerati europei medioevali, con interessanti spiragli culturali anche verso l’Europa dei primi del Novecento. Per esempio, sembrano prese dichiaratamente a modello la città e le fortificazioni del nostro continente, ma è sui generi che l’opera di Isayama si esprime e punta decisamente con più efficacia. Anzitutto, il genere di appartenenza, ovvero il post apocalittico, è una categoria molto ben delineata. La cura riposta, tipicamente giapponese, nello schematizzare e organizzare ogni singolo aspetto delle storia, al fine di costruire un complesso macrocosmo logico e coerente, è davvero impressionante e funziona bene. L’anime aumenta questa sensazione, offrendo durante le eyecatch (le pause commerciali durante gli episodi) strumenti interessanti per capire meglio l’universo complesso di Attack on Titan.

Colpisce come l’autore, man mano che il manga procede, spieghi dettagliatamente ogni più piccola idea della cupa vicenda e non solo ne aggiunga sempre di nuove ed appassionanti, ma centellini sapientemente quello che, in mano a qualsiasi altro autore “shonen”, diventerebbe un’autentica stupidata nel giro di un paio di capitoli/stagioni, con sempre più poteri da gestire, scontri lunghissimi, fazioni di buoni e cattivi che si frappongono, giganti dai poteri sempre più incredibili e sempre più noiosi. Materiale di questo tipo, nelle mani sbagliate (il 90% dei mangaka giapponesi attuali), avrebbe decretato anzitempo la sua prematura fine, annoiando a morte il lettore/spettatore. L’autore, invece, nonostante le perplessità iniziali, è abilissimo a movimentare la vicenda quando opportuno e quando lo si necessita per il ritmo della storia, virando per esempio improvvisamente il punto di vista, laddove il lettore pensa di aver realizzato chi siano gli eroi della vicenda.

Il fulcro di Attack on Titan non è solo raccontare l’umanità tramite la poetica degli scontri, evitando la banalizzazione disarmante del combattimento, ma costruire semmai un prolifico scambio di ideologie - tra autore e lettore - che accomunano in toto l’intera razza umana. Specialmente nel secondo arco narrativo del manga, che tocca vertici assoluti di narrazione non-canonica, con il lettore che non sa più dove propendere, tali sono le motivazioni messe in campo. Isayama costruisce lentamente, ma meticolosamente, un intreccio narrativo che spiega molti aspetti di questa società umana. Al di fuori delle tematiche totalizzanti dell’opera, quali libertà, oppressione, umanità, mistero, combattimento, origini e le riletture che ne conseguono, stupisce come tutto l’arco narrativo sia perfettamente oliato e funzioni splendidamente, utilizzando magistralmente l’anelassi (dicasi anche flashback).

Necessita però di tempo, per restituire qualcosa di infinitamente superiore rispetto alle premesse iniziali dell’opera, che vedevano, almeno al principio, ragazzini svolazzanti che tagliavano a fette colli di giganti, spesso finendo divorati orrendamente, lasciando ampi spazi a momenti tipicamente shonen-drama. C’è poi un’ampia gamma di riflessioni sui luoghi della vicenda, sui significati fortemente simbolici e sulle dinamiche di prosa.

È interessante notare che il mondo di Shingeki no Kyojin è modellato su una dicotomia della cultura norrena: “innangarðr” (all'interno del recinto) e “útangarðr” (oltre il recinto). Ingards (cioè "dentro") era uno spazio in cui si tenevano le leggi di una comunità, opposte agli “utangards”, uno spazio esterno di illegalità. Recinzioni e muri separavano simbolicamente i due spazi. Nel mondo di Shingeki no Kyojin, la presenza di un mondo esterno dei Titani e uno interno degli umani indica questa separazione.

La razza umana, rinchiusa dietro queste colossali mura, è un attento affresco della società odierna, multirazziale e multiculturale, anche se questi aspetti non sono mai proposti con troppa convinzione a causa di specifiche scelte autoriali. Siamo l’ultimo pezzo dell’umanità, sembra volerci dire Isayama, ma facciamo sempre abbastanza schifo, tutto sommato. Riusciamo a non combattere una sanguinosa guerra dentro le mura solo perché abbiamo ricreato ad hoc i deficit tipici dell’epoca moderna e del Novecento o, meglio, tutti i suoi passaggi più salienti, come suddividere la popolazione in classi sociali ben distinte: persone povere, persone ricche, monarchia, ceto nobile, imboscati… e non ce la facciamo proprio a non dividerci sotto un tranquillizzante governo paramilitare, anche se siamo sull’orlo del collasso. Non riusciamo ad accettare la povertà altrui come un pesante deficit del nostro stile di vita, è per forza un fallimento del vicino, che certamente non ci appartiene.

Questi pensieri sono favoriti da alcune scelte di campo estremamente coerenti.

L’anime è davvero attento a ricreare un senso di oppressione da parte delle mura.

Per esempio, la società all’interno delle mura non è un agglomerato di odiosi personaggi giapponesi ma è un grandioso tessuto sociale multi etnico. Ci sono personaggi con cognomi francesi, giapponesi, italiani, tedeschi, che vivono tutti assieme, ma assai poco appassionatamente, a giudicare dal divario sociale che distingue le classi agiate, composte da una borghesia pigra e viziata, da quelle povere, e identifica in quest’ultime una risorsa sacrificabile. Vi sono infatti quartieri periferici il cui unico scopo è attirare l’attenzione dei giganti mangia uomini, così da sfoltire il loro vasto numero, in caso di superamento delle mura.

Attack on Titan piace così tanto al pubblico perché, alla fin fine, è un manga molto umano. Sembra una specie di favola dei fratelli Andersen o di Esopo, ma in chiave apocalittica.

I personaggi che compongono questa intricata ma decisamente fascinosa storia sono dei deboli insicuri come la maggior parte dei lettori che li leggono. Gli atti di eroismo sono spesso dimostrazioni stupide, compiute senza pensare minimamente alle conseguenze. Le persone non muoiono in maniera eroica ma, anzi, in modo piuttosto umiliante, urlando, piangendo e scalciando come ossessi. Gli eroi sono costantemente inadatti ad affrontare le minacce, incapaci di reagire a quello che li circonda per paura, rabbia, orgoglio, ripensamento, codardia. In ogni momento, c’è spazio per il ripensamento e la sensazione, fatte le debite premesse di trovarsi dinnanzi ad una sorta di Il trono di spade in salsa di soia, nel quale nessuno è effettivamente mai al sicuro e tutti possono non solo morire male, ma anche in una sconfortante solitudine.

La versione anime è realmente una produzione straordinaria, alla quale l’autore ha partecipato attivamente, consigliando su diversi aspetti artistici.

Quel genere di cose innegabilmente dolorose.

Attack on Titan mostra in toto la fragilità dell’animo umano, contrapponendola ai sentimenti di coraggio, libertà e speranza degli sfiduciati protagonisti di questa storia decisamente grottesca, alla cui base si muove un sottobosco minuzioso di fantapolitica e combattimenti marziali, in cui si vede non solo una netta predisposizione dell’autore riguardo alla gestione dei combattimenti corpo a corpo, ma anche un estro creativo notevole nel gestirli, senza mai farlo sembrare de facto uno shonen per ragazzini. Il manga e l’anime, una trasposizione fedele, raccontano di quanto sia inadatto il genere umano a confrontarsi, prima di tutto, con lo stesso genere umano. Di quanto una barriera, un muro o un ostacolo di qualche tipo non siano solo e unicamente impedimenti di natura fisica ma, prima di tutto, blocchi ideologici, cementificatisi nel nostro cervello prima che nella oscena realtà che ci circonda.

Il muro ci difende dai pericoli esterni ma ci rende al contempo prigionieri, ci difende ma ci obbliga a sottostare alla sua inflessibile struttura, è fonte di sicurezza ma anche di debolezza. Il muro, però, costruisce anche la nostra identità e, al sicuro dietro di lui, siamo noi dalla parte del giusto. Gli altri “sono gente fuori dalla mura”.

Ogni personaggio che incontriamo nell’opera di Isayama ha chiaramente una sua storia, un suo passato, ma non è su aspetti singoli che l’autore eccelle nel raccontare, piuttosto nella coralità d’insieme di questa scuola di cadetti. Tutti i personaggi principali della storia, e non solo, hanno chiaramente una motivazione per combattere i mostruosi giganti ma c’è una sostanziale differenza in come Isayama sfrutta l’intreccio narrativo e in come riesce a piegarli ai toni più adulti del suo racconto, consegnando una formula interessante ed originale, deprivando costantemente il combattimento, quanto ne consegue e le relazioni interpersonali che intercorrono tra i protagonisti.

Colpisce constatare la mole sterminata di materiale doujin su Attack on Titan creato dal vasto fandom del manga. Sostanzialmente, si focalizza sulle relazioni interpersonali tra i protagonisti della vicenda e vede spesso i protagonisti in chiave scolastica, impegnati in situazioni amorose. Sono aspetti sui quali Isayama non si sofferma più di tanto nel manga originale, pur delineandoli in maniera piuttosto efficace e per scopi narrativi. Attack on Titan non difetta di questi passaggi, semmai racconta di sentimenti nella loro forma più alta, non certo cotte giovanili.

A proposito dei protagonisti, Isayama è particolarmente abile a motivare ogni scelta dei personaggi primari e secondari della storia. C’è chi, spavaldamente, non vede l’ora di affrontare i pericoli esterni delle mura e afferma di essere pronto a fare a fette decine di giganti, salvo poi restare completamente inerme alla loro semplice vista. C’è chi, invece di provare l’esperienza mortificante di testare quello che ha imparato, decide opportunamente di scegliere un corpo militare a termine dell’accademia di addestramento che permetta una vita più tranquilla ed agiata (per esempio il corpo di gendarmeria, che si occupa di garantire e far osservare la legge vigente in città). C’è chi frequenta l’accademia perché questa, se terminata positivamente, offre una professione che riempie la pancia. C’è, infine, chi se ne frega di tutto e tutti e vuole cambiare davvero le cose. Attack on Titan non è altro che uno specchio della società attuale, mutevole e frammentata, un manga particolare che è capace di annoiare nel giro di pochi capitoli o catturare come pochi manga possono fare.

I concetti espressi nell’opera, come l'umanità che tenta disperatamente di tenere fuori i mostri, solo per rendersi conto di mostri ancora più grandi all’interno del suo tessuto sociale, sono efficaci paradigmi della nostra società odierna.

E qui mi fermo, anche se potrei avanzare.