Shadow of the Colossus per la terza volta, assieme a qualche considerazione sulla liceità dei remake
Ecco, prima di mettere giù questo pezzo, per sfizio, ho voluto confrontarmi brevemente con un amico che, del tutto incidentalmente, non aveva mai avuto occasione di giocare a Shadow of the Colossus prima che uscisse il remake su PlayStation 4 qualche settimana fa. Non aveva messo le mani su Ico & Shadow of the Colossus Classics HD, uscito nel 2011 perché, banalmente, all’epoca possedeva solo un Xbox 360, così come aveva bucato la versione originale del 2006 perché era in piena fase PC.
Vedi i casi della vita: stiamo parlando di quello che viene annoverato tra i videogiochi più influenti e originali di sempre, eppure esistono ancora persone che, per un motivo o per l’altro, magari non sono ancora riusciti a giocarci.
Le cause sono tante, e non c’è molto da giudicare, quando si parla di esclusive: non tutti scelgono, giustamente, di acquistare tutte le piattaforme presenti contemporaneamente sul mercato. Persino i giocatori più accaniti possono aver saltato questa o quella console, anche perché ogni generazione ha una macchina che la fa da padrona. Per non dire poi di quelli “solo PC”.
Insomma, se da un lato la cosa più figa in assoluto sarebbe l’avvento di uno standard unico declinabile a piacimento da qualsiasi produttore di hardware, in mancanza di quello, tendo ad appoggiare filosoficamente i vari remaster, oppure le riedizioni “pari pari” à la Sega Vintage Collection: Monster World (che - fun fact - al momento è l’unico gioco che ho dato in pasto ai muscoli di Xbox One X), o i remake, a patto che vengano gestiti come si deve.
Riguardo alla versione per PlayStation 4 di Shadow of the Colossus, al netto dei molti entusiasmi, sto leggendo in giro pure diverse lagnanze riguardo lo stile grafico adottato da Bluepoint Games (gli stessi dietro al remaster in HD del 2011). Ora, senza dare peso ai bastian contrari a tutti i costi, per i quali ogni manomissione del sacro andrebbe punita con la morte, c’è anche gente che muove le sue critiche con discernimento, osservando, ad esempio, che i miglioramenti grafici implementati nel remake non sarebbero artisticamente in linea con lo stile del gioco originale. In questo caso son punti di vista, gusti. Ci mancherebbe. Però non posso fare a meno di tirarmi qualche pippone.
Se penso al cinema, il concetto di remake è piuttosto chiaro: in genere, la pellicola oggetto dell’operazione viene girata daccapo, magari riscritta, se non addirittura stravolta. Al riguardo, il caso più celebre è forse lo Scarface del 1983, diretto da Brian De Palma e scritto da Oliver Stone, decisamente diverso rispetto a quello del 1932 diretto da Howard Hawks. Ciononostante, oggi se pensiamo a Scarface, in genere pensiamo a Pacino, non a Paul Muni.
Diverso è il caso dei recut o i dei remaster: George Lucas, con i suoi Star Wars, si è sbizzarrito parecchio, per dire, ma in genere gli interventi sul film originale sono piuttosto miti, se non limitati all’aggiornamento tecnologico.
Quando si parla di musica, di contro, la faccenda diventa più complessa. Entra in gioco il concetto di cover (di un singolo pezzo, se non di interi album: vedi Non al denaro non all'amore né al cielo di De André reinterpretato da Morgan) assieme a quello di autore, di interprete e cose così. Insomma, un discreto casino.
Eppure, con i videogiochi le cose si fanno persino più complesse. Cosa definisce la natura di un videogioco? Il codice, le meccaniche o la direzione artistica? Per metterla sul pernicioso (e sull’ozioso), tra i vari remake e remaster, quale versione del gioco è IL gioco? La prima, oppure la migliore, per quello che significa?
Shadow of the Colossus per molti è e sarà sempre quello originale del 2006, ma per il mio amico qui sopra, probabilmente e al netto di etichette formali, sarà quello che sta sperimentando in questi giorni su PlayStation 4.
Sparata per sparata, potrei aggiungere al ragionamento altre variabili più o meno sensate o legate alle percezione dell’esperienza. Variabili quali l'età del giocatore, il suo stato d’animo, la prossemica in relazione al monitor e pure quello che succede fuori dal monitor. Per non dire dell’hardware, del controller utilizzato, della versione del codice e relative patch, eccetera eccetera. Al di là della tassonomia, è complicato definire un’esperienza di gioco, circoscriverne pienamente il senso.
Chiaro che le mie sono divagazioni, iperboli, fumi: alla fine è comodo - e ha pure senso - dare per scontate un certo numero di cose, altrimenti non riusciremmo nemmeno a fare conversazione. Eppure, ogni tanto fa bene ricordare che attorno a qualsiasi scemenza esistono dozzine di variabili che tendiamo giocoforza a semplificare.
Tornando con i piedi per terra (e ai videogiochi, finalmente), se penso a un remake uscito male, penso a The Secret of Monkey Island: Special Edition, che oltre ad aver tradito lo stile dell’originale appiattendolo completamente, ha finto anche per modificare la percezione di alcuni enigmi a livello di leggibilità e prospettiva simbolica (banalmente, un pesce pixelloso è diverso da un pesce in alta definizione).
Per quanto riguarda il remake di Shadow of the Colossus, la faccenda è senz’altro differente. OK, la grafica è stata aggiornata, e a prescindere dal fatto che a me il lavoro di rivisitazione svolto da Bluepoint Games è piaciuto parecchio, il punto è che poligoni e texture sono maggiormente dipendenti dalla tecnologia che li fa girare, e finiscono con l’invecchiare in fretta, mentre la pixel art confezionata come si deve può starci pure per sempre. Volendo, si può anche tirare in ballo tutto il discorso delle grafiche scalabili su PC: qual’è la versione “giusta” di un gioco? Quella tarata sulle impostazioni medie o quella spinta al massimo?
È pur vero che dall’impatto con i vincoli tecnologici di una data epoca possono saltar fuori ottime idee di design. Tuttavia, se in un remake le idee ci sono già, e i limiti, al contempo, sono stati superati, è così sbagliato alzare un po’ gli asset rispettando lo stile di partenza? Occhio che non è una domanda retorica: a naso direi di no, ma sotto sotto non è che abbia proprio le idee chiare.
Quello di cui sono sicuro ora, mentre scrivo, è che il “mio” Shadow of the Colossus è senz’altro quello del 2006, per tutta una serie di motivi. È stato - credo - l’unico gioco che abbia mai inchiodato a una prenotazione, e ricordo di essere andato a ritirarlo in autobus (cambiando tre mezzi diversi) sotto una nevicata pazzesca.
Giocandoci, colosso dopo colosso, mi sono emozionato, ho combattuto, mi sono divertito e in certi momenti mi è pure preso un po’ di magone. Di quando in quando, ho provato a ragionare sul level design e sulle meccaniche del gioco: all’epoca non avevo idea che Fumito Ueda, mentre studiava alla Osaka University of Arts, passasse il tempo a pasticciare con l’Amiga, ma ricordo senz’altro di aver riconosciuto in ICO e in Shadow of the Colossus quel non so che di Prince of Persia e Another World, da cui il game designer giapponese ha in qualche modo ereditato anche le atmosfere e il senso del racconto.
Nel 2006 mi ero messo in testa che Shadow of the Colossus rappresentasse la prosecuzione per antitesi di ICO, proprio a livello di gameplay, e come spesso succede in questi casi, mi pareva di vedere dappertutto prove a sostegno della mia teoria. I bestioni non rappresentavano solo una sfilza di boss da abbattere, erano soprattutto “spazio”. In ciascuno di loro, intravedevo un’ala del castello di ICO con l’aggiunta del movimento. Ciascun colosso era un luogo, un enigma da leggere, da decifrare, e infine da risolvere con una destrezza degna di un platform.
Naturalmente ero pure andato in fissa col senso del rito – esplicito e implicito – espresso dal gioco, oltre che col world design che mi faceva pensare continuamente all’antico mito del Minotauro: ogni area era un labirinto da sbrogliare, e al centro di ogni area c’era un guardiano bestiale.
Tutte queste cose le ho trovate intatte anche nel remake sbarcato su PlayStation 4, un remake che a mio modo di vedere ha mantenuto tutto lo spirito e il gameplay del gioco originale, aumentandone la definizione, i dettagli. Esaltando forme e colori senza tradimenti: l’erba è più verde, il cielo è più azzurro, le rovine sono più definite e i colossi, beh, sono sempre loro, ma non stonano affatto col maggiore fotorealismo generale. Anzi: mi sembra che i loro movimenti entrino in perfetta armonia con tutto il resto.
I bestioni sono ancora quello stralunato incrocio tra i mostri selvaggi di Maurice Sendak e certe creature uscite dalla capoccia di Hayao Miyazaki (vado giù a grana grossa, mi rendo conto), e ciascuno rimanda a questa o a quella creatura del regno animale. Ci sono i colossi acquatici, quelli volanti, i quadrupedi, gli insettoidi e persino quelli antropomorfi, ed è facile per il giocatore sovrapporli mentalmente con [inserire animale domestico e non, a piacere] con conseguente magone e senso di colpa.
Nel complesso, solo il volto di Wander mi è arrivato un filo alieno, un pelo meno espressivo dell’originale. Sarà che nel frattempo mi sono abituato ai tratti del ragazzino di The Last Guardian, boh. Resta che Wander non è mai a favore di camera, quindi alla fine chissenefrega. Agro, di contro, resta uno dei migliori destrieri della storia dei videogiochi, e se la gioca con Epona.
Tra l’altro, durante le prime fasi, questo Shadow of the Colossus mi è parso più facile rispetto a come lo ricordassi, soprattutto la prima metà, che ho infilato quasi senza accorgermene. Per un attimo, ho pensato a qualche sorta di semplificazione, ma alla fine, tra originale, remaster e qualche bis, sono io che negli anni ho accumulato un discreto numero di run per un gioco che, tutto sommato, non è che sia mai stato così difficile.
Tra l’altro, proprio in questo istante, mentre scrivo, fuori ha preso a nevicare come in quel pomeriggio del 2006: chissà, magari, in futuro, anche solo per il fatto che l’ho giocato di fresco e ne sto scrivendo qui, su Outcast, durante le ore notturne, il “mio” Shadow of the Colossus potrebbe diventare questo rimaneggiato da Bluepoint Games. Vai a sapere.
Detto ciò, non sono completamente sicuro di sapere se ho scritto un editoriale, un Ospizio o una recensione del remake di Shadow of the Colossus (del resto, se davvero vi fosse servita una recensione fatta e finita, sareste venuti a cercarla qui su Outcast, a un mese dall’uscita del gioco?). Magari ho buttato giù semplicemente una vagonata di minchiate, boh. Nel dubbio, un voto lo lascio qui.
Nonostante nell’articolo trovino spazio soprattutto le mie pippe mentali, ho giocato a Shadow of the Colossus su PlayStation Pro in 4K e in modalità Cinema, ma senza HDR, grazie a una copia promo gentilmente fornita da Sony. Ho ritrovato esattamente lo stesso gioco che ricordavo: solo, più bello a vedersi. Ah, come al solito, se acquistate il gioco (o qualsiasi altra cosa) su Amazon passando dai seguenti link, una piccola percentuale di quello che spendete andrà a noi, senza alcun sovrapprezzo per voi. Se volete procedere su Amazon Italia dirigetevi qui, se preferite Amazon UK puntate qui.