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Solid Stakes

La mia prima recensione “importante” è stata quella di Metal Gear Solid: la passione con cui ho finito il gioco per poterne scrivere mi ha dato la fiducia per continuare a seguire quella strada, che poi ho percorso per anni. Una strada che, di lì a poco, mi avrebbe portato a incontrare lo stesso Kojima in un paio di presentazioni per la stampa. L’impressione che ne ricavai allora fu che non si trattasse di una rockstar, come a qualcuno piaceva dipingerlo, ma che possedesse inequivocabilmente il carisma dell’intrattenitore e, soprattutto, un ottimo gusto per il guardaroba.

Non ho mai avuto l’arroganza di parlargli in disparte per il rispetto che provo per chi ti viene presentato perché fa parte del suo mestiere. Anche se la verità è che, per quanto lo stimassi come autore di videogiochi, non sono mai stato un fanboy. In quegli stessi anni, il mio idolo era Shinji Mikami.

Uno Shinji Mikami perplesso.

Allo stesso tempo, però, tutto quello che è uscito dalle sue mani come game designer e producer è finito tra le mie di giocatore, con fortune alterne. Come per la serie di Resident Evil, non so quante versioni rimasterizzate possiedo dei vari capitoli della saga di Metal Gear. Snake Eater l’ho iniziato su tutti i formati, ma non ricordo di averlo mai finito. Tra tutti i miei ricordi, invece, il tempo passato meglio rimane quello in compagnia di Twin Snakes per GameCube, in cui il rapporto tra gameplay e bombastic storytelling è ancora in equilibrio.

Infatti, per quanto possa apprezzare la forte impronta autoriale di Kojima come game designer, non riesco a provare lo stesso l’entusiasmo per la prolissità delle sue narrazioni (prolissità che, come lui stesso riconobbe, ne impedì la carriera di scrittore in giovane età).

La chiave di ogni gioco, a mio avviso, risiede nell’interattività. La storia, in un gioco, è quella che ogni giocatore racconta al termine della propria esperienza, non quella inserita a forza con dialoghi e cutscene. La forza di una produzione come Metal Gear Solid sta nel fatto che tutti quelli che ci hanno giocato hanno una storia da condividere, che non nasce tanto dal tema trattato nella sceneggiatura quanto dall’uso accorto che Kojima fa della tecnologia. Questi gli esempi più eclatanti:

  • quando sfrutta i limiti della CPU per premiare l’approccio non violento (se i nemici vengono storditi, rimangono in scena, se vengono eliminati, altri ne arrivano);

  • nella coerenza tra meccaniche e contesto (il vizio del fumo non solo caratterizza il personaggio ma, allo stesso tempo, è utile a superare le trappole e ha potere calmante e, in linea con il pensiero comune, riduce la barra della salute);

  • quando sfonda la quarta parete, lasciando dapprima interdetti e poi affascinati (come la frequenza radio stampata sulla custodia del gioco e il duello con Psycho Mantis).

Elementi che ritroviamo anche in altre opere, come l’impiego della luce solare in Boktai o lo spiazzante cambio di protagonista in Sons of Liberty. Nel suo ricco portfolio, emerge chiaramente la capacità di rendere semplici le cose difficili (intelligenza artificiale, meccaniche di gioco, sistema di controllo – i combattimenti con la spada sono fantastici, ma durano solo un paio di minuti) ma poi Kojima finisce per perdersi nei dettagli del suo universo, obbligando il giocatore a sorbirseli, senza offrire un’alternativa indolore. Metal Gear Solid 4 è fenomenale in termini di gameplay, ma l’esperienza complessiva è una lenta agonia, trascorsa per la maggior parte del tempo a premere pulsanti solo per mandare avanti i dialoghi.

Al contrario, quando l’esperienza è più focalizzata, il risultato è indiscutibile: Ground Zeroes, proprio per la sua natura compatta, funziona a meraviglia e lo stesso vale per quel capolavoro di P.T., ad oggi uno fra i migliori “walking simulator” in circolazione, perfetto compromesso tra limitazioni tecnologiche (di fatto, l’esperienza si svolge tutta in un corridoio a “L”, con l’unica meccanica dello zoom) e costruzione dello scenario (contrariamente al pensiero dei fan, non credo che tale esercizio di stile potesse reggere la meta ambiziosa di un Silent Hill in versione extended).

Che dire, quindi, del futuro lontano da Konami? Se è difficile rimanere indifferenti all’ambiguità dei trailer di Death Stranding, si tratta pur sempre di audiovisivi lineari che mostrano ben poco del gioco giocato. Ma da appassionato di gameplay innovativi, è proprio su questo terreno che aspetto Kojima al varco, costretto finalmente a uscire dalla comfort zone di Metal Gear e con l’opportunità di creare, libero da qualsiasi vincolo (ma con tutti gli occhi puntati addosso), qualcosa di radicalmente nuovo e potenzialmente dirompente, come è stato per la prima avventura in 3D di Solid Snake su PlayStation.

Certo, l’avrei preferito concentrato su un progetto in VR, perché la capacità che Kojima ha dimostrato nel saper trasformare i limiti imposti dalla tecnologia in distillati di puro intrattenimento avrebbe potuto dare vita all’esperienza che tutti (noi patiti di VR) stiamo aspettando, definendo le regole di ingaggio di una modalità di fruizione dei contenuti ancora poco compresa e sfruttata a dovere.

Tempo al tempo.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Metal Gear e Hideo Kojima", che trovate riepilogata a questo indirizzo.