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Racconti dall'ospizio #103: Se me lo chiedete ora, Metal Gear Solid 3: Snake Eater è il mio videogioco preferito in assoluto (tra gli amari, invece, preferisco il Bràulio)

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

So bene che la proclamazione del titolo ha un po’ il sapore di una sparata, ma giuro che non lo è. In questo istante, mentre scrivo, penso e bevo Bràulio a go-go, il mio videogioco preferito è senza dubbio Metal Gear Solid 3: Snake Eater. Chiaro che tra una settimana il primato potrebbe passare tranquillamente nelle mani di Street Fighter II, di Final fantasy VII o di Monkey Island 2: LeChuck's Revenge. Oppure in quelle di Shadow of the Colossus, già che siamo in ballo col remake per PlayStation 4. In quelle di ICO, perché no, o in quelle tutte appiccicose di Super Mario World. Me lo aveste chiesto lo scorso marzo, toh, il mio gioco preferito di tutti i tempi sarebbe stato Zelda: Breath of the Wild.

Ma oggi, ora, in questo istante, il primato spetta a Metal Gear Solid 3, che comunque sarebbe sempre incluso nella lista. Non dico sempre il primo della lista. Ma neanche l'ultimo degli stronzi.

Come già raccontato nel precedente Ospizio dedicato a Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, sono entrato in possesso di una PlayStation 2 solo nel 2005, dopo un breve periodo di pausa nei confronti dei videogiochi, e per una serie di casualità, mi sono ritrovato fra le mani il terzo Metal Gear Solid qualche settimana prima del secondo.

Ricordo di aver infilato il disco nella console un po’ così, sul vago, mentre me ne stavo in compagnia di un paio di amici e senza immaginare la bomba che stava per iniziare. Certo, tutti e tre venivamo dall’esperienza del primo Metal Gear Solid su PlayStation. Tutti e tre eravamo curiosi, OK, ma non eccessivamente curiosi: all’epoca, pure i miei compari si erano impantanati nella mia stessa fase di scazzo videoludico. Una fase che loro, tra l’altro, non avrebbero più abbandonato, senza contare che erano freschi freschi di un viaggio in Thailandia, ancora intorpiditi dal jet lag, dagli eccessi e da qualche ping pong show.

Gli eccessi.

Comunque, dicevo, l’impatto col gioco fu davvero pazzesco, con quello sboronissimo salto col paracadute e tutta la tiritera fantapolitica sulla Guerra Fredda. E tra JFK, Krusciov e la crisi dei missili di Cuba, nessuno di noi aveva minimamente intuito che il tizio in scena, Naked Snake, fosse in realtà il mitico Big Boss (spoiler!) all’inizio del percorso che lo avrebbe portato da patriota a rivoltoso.

E mentre gli altri due se ne strafottevano, comunque, del tizio in scena, io - più incline alle supposizioni - mi ero lanciato in congetture tipo viaggi nel tempo, cloni sconosciuti o dimensioni parallele (ah! Come in Metal Gear Survive: vedi il caso, alle volte). Insomma, avevo abboccato come una trota all’esca buttata dal vecchio Hideo Kojima. E che esca! Che presentazione, ché quelli erano ancora gli anni - forse gli ultimi anni - in cui il grosso della narrazione videoludica passava per le cutscene, e la gente non se ne lagnava come oggi. Ah, i cantieri.

Naked Snake mentre fa lo sborone col suo celebre lancio HALO (dopo tanti anni, ho cercato il significato su Wikipedia: sta per “High Altitude Low-Opening”).

Passata la botta di stupore e catapultati nell’avventura, ci si para davanti la barriera d’ingresso del gioco. Una barriera discretamente alta. Una barriera VERAMENTE alta, per i miei compari, che mi mollano lì col joypad in mano e tanti saluti. Io pure, col fatto che avevo saltato il secondo episodio, potevo giusto appoggiarmi all’esperienza del primo, pure lei scricchiolante (avevo lisciato il remake per GameCube).

Insomma, ero bolso e fuori allenamento. Ma soprattutto, non riuscivo a trovare il radar da nessuna parte. Dov’era finito? Dov’era la mia guida? Oh, io, col primo Metal Gear Solid, avevo sempre un occhio puntato sul radar.

E invece niente. Kojima aveva deciso che i tempi erano sufficientemente maturi per radicalizzare la sua idea di gameplay, liberandola da ogni tipo di sofisticazione o aiuto superfluo, per calare davvero, questa volta, i giocatori in una vera e propria azione di infiltrazione. Vista in quest’ottica, la scelta di “ricominciare” dagli anni Sessanta, oltre ad essere interessante sul piano narrativo, con quei suoi toni bondiani, era anche il gimmick perfetto per levare dalle scatole nanomacchine, radar e gran parte della tecnologia futuristica; per alzare il livello di difficoltà senza perdere in coerenza.

Probabilmente altri designer, al posto di Kojima, se ne sarebbero fregati, della coerenza, e avrebbero semplicemente modificato le meccaniche senza dare giustificazioni al giocatore, e bon. Ma Kojima non è “altri designer”, fermo restando che a tutt’oggi non saprei dire se sia arrivato prima l’uovo (didascalia: il background) o il serpente (didascalia: le meccaniche).

Comunque. Il salto nel passato finì col favorire tutta una serie di evoluzioni e rivoluzioni, lasciando filtrare nella serie diverse genialità: dalla necessità di cacciare, nutrirsi e leccarsi le ferite, fino a quella di mimetizzarsi con l’ambiente per non farsi beccare. Poi, via il radar e largo agli strumenti vintage da spia anni Sessanta; largo agli interrogatori per mappare le unità nemiche. Unità dotate di un’intelligenza artificiale complessivamente più raffinata rispetto a quella dei loro “pronipoti”. A questo giro, gli avversari di (Naked) Snake erano ossi duri, organizzati e dai comportamenti coerenti. Perfettamente in grado di comunicare tra loro e di impostare schemi e strategie. Per certi versi, tutto il rivoluzionario lavoro sulle intelligenze artificiali che sarebbe culminato qualche anno dopo in Metal Gear Solid V: The Phantom Pain ha avuto origine proprio da Snake Eater.

Ma non è tutto. Kojima, rispetto al passato (o al futuro, a seconda), aveva scelto di ridurre il ruolo delle armi a favore di un sistema di combattimento corpo a corpo ripensato dalle basi: il cosiddetto close quarters combat. Basta con calci e pugni tirati a casaccio: in Snake Eater il giocatore poteva parare, bloccare o stordire gli avversari. Interrogarli o ripulirli per bene, a seconda dei casi. Il CQC lubrificava ulteriormente l’approccio offensivo non letale tanto caro a Kojima, svicolandolo dai soli proiettili soporiferi.

In scia al close quarters combat, vennero introdotte nella serie diverse nuove meccaniche.

Ora, vale la pena spendere due parole sui rischi che si è preso Kojima, e che spesso passano inosservati. Alcune tra le novità introdotte - curarsi, mimetizzarsi, eccetera – interrompevano spesso il ritmo dell’azione e impacciavano un po’ l’interfaccia, mentre le apparecchiature sonore e ottiche low-fi, talvolta, sfavorivano la ricchezza grafica del gioco. Non so voi, ma personalmente ho passato parecchie ore a strisciare negli anfratti più bui o con qualche visore calato sugli occhi. Niente che non si fosse già visto almeno in parte nei precedenti capitoli, per carità, ma qui il rischio era un po’ più alto. Kojima scelse consapevolmente di limitare alcuni tra gli aspetti più spettacolari del gioco a favore delle istanze ludiche, sfiorando la dissonanza con certe scene di intermezzo pur di prendere a schiaffi laggente che, ancora oggi, gli rimprovera di “fare il regista” al posto di concentrasi sul game design. Cani ingrati.

Il level design di Kojima è geometrico e rigoroso anche quando viene nascosto dal fogliame

Anche gli ambienti di Snake Eater apparivano molto diversi rispetto ai giochi precedenti: gran parte dell’avventura si consumava in spazi esterni, tra boschi, tundra e montagne. Rispetto alle strutture relativamente chiare e leggibili di Shadow Moses o di Big Shell, l’impatto era spiazzante. Durante la mia prima battuta di gioco, sono morto dozzine di volte, nel tentativo di cercare un pertugio dove infilarmi.

Come dicevo prima, la barriera di ingresso era un po’ più alta della media e poteva senz’altro scoraggiare. All’epoca, ricordo gli scaffali di GameStop pieni di copie usate, senz’altro svendute da qualche giocatore scorato. Tuttavia, una volta deciso di stare al gioco, le meccaniche finivano col trasformarsi da aguzzine a insegnanti. Insegnanti severe, ma giuste, che piano piano trasmettevano al giocatore la capacità di leggere gli ambienti, di coglierne le geometrie fino a riconoscere il level design tipico della serie, nascosto tra alberi e foglie.

In effetti, è stato proprio giocando a Metal Gear Solid 3 che ho iniziato a intuire e ad apprezzare il “tocco di Kojima”. A entrare in sintonia col suo senso del design, fino a comprendere le differenze tra la visione di gioco giapponese e quella occidentale.

Il level design del gioco, che funziona ancora benissimo per quanto concerne le sezioni di esplorazione, raccolta dati e infiltrazione, non perdeva smalto nemmeno durante gli scontri con i boss, tra i più riusciti della serie. Volgin, il giovane Ocelot e naturalmente The Boss e tutti i membri dell’Unità Cobra, a livello di carisma, caratterizzazione e background, danno la biada – e di molto – a Dead Cell e compagnia, riuscendo a stare al passo con (e in alcuni casi a superare) i celeberrimi membri ribelli di FOXHOUND.

The Boss e l'Unità Cobra - come si diceva ai miei tempi - rullano.

In Snake Eater, tutti i combattimenti con i boss richiedevano strategia, tattica, pazienza capacità di osservazione e adattamento. Ciascun avversario era (è) coerente con l’ambiente che presiedeva e nelle sfide non c’era traccia di momenti deboli. Tuttavia, a tutt’oggi trovo che il duello più straordinario del gioco, persino migliore del lirico scontro finale con The Boss, sia quello con The End, l’ultracentenario e infallibile cecchino deciso a spendere le sue ultime forze in battaglia. E che battaglia! Lo scontro, per certi versi, riassume in chiave “uno contro uno” tutte le meccaniche stealth presenti nel gioco. Ricordo che all’epoca della prima run, per “buttare giù” The End, guadagnare la sua mimetica e il leggendario fucile Mosin-Nagant, tirai giù parecchi santi, esplorando l’ambiente palmo per palmo cercando il punto migliore per sorprendere il nemico alle spalle con la pistola a dardi (metodo stamina, ovviamente), stando attento a non finire nel suo infallibile mirino. Con The End ci siamo poi affrontati anche su PlayStation 3, in HD, e persino su 3DS, e ogni volta è stata fantastica.

«Ma che magnifico cantiere!»

Insomma, in questo preciso istante, alle tre e zero cinque del mattino, un po’ ciucco e perso tra il presente e il passato (anche nel senso dei tempi verbali che adopero), dopo qualche migliaio di caratteri buttati in lodi sperticate e in un crescendo di fomento, dichiaro che Metal Gear Solid 3: Snake Eater è senz’altro il mio episodio preferito della serie di Kojima, nonché il mio gioco preferito in assoluto. Il mio amaro preferito, invece, è e sarà sempre il Bràulio, il Big Boss della Valtellina. Con buona pace dell’Averna, del Fernet-Branca e persino del Vecchio Amaro del Capo.

Il Big Boss della Valtellina.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Metal Gear e Hideo Kojima", che trovate riepilogata a questo indirizzo.