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Ti sei preso la mia anima, Cuphead. E io sono stato ben felice di consegnartela

Quello con Cuphead è stato sin da subito un rapporto speciale, unico, diverso. Mi ricordo benissimo il momento in cui è scattato il nostro colpo di fulmine: era l'E3 2014 e io me ne stavo là, comodamente seduto in platea al Galen Center di Los Angeles per la conferenza Xbox, quando, durante lo showreel con la raccolta dei titoli indie in arrivo, si materializzano una decina di secondi che mi fanno avere un sussulto, un attimo di mancamento. 

Nel mezzo dell'altalenante masnada di uscite prossime venture, emerge infatti con fierezza e classe fuori dal comune un gioco diverso da tutti gli altri, uno strano sparatutto con estetica anni '30: si chiama Cuphead – un nome che mi resta immediatamente impresso – e a svilupparlo è un team di cui non ho mai sentito parlare prima di allora. Poco dopo, l'evento volge al termine (se non ricordo male, senza chissà quali sussulti o insulti), eppure, mentre mi avvio lentamente verso l'uscita, a tornarmi in testa a più riprese è quel cazzo di indie così ammaliante da vedere, così misterioso, così capace di smuovermi qualcosa dentro.

Non sono ovviamente l'unico a notare quel sinistro tributo alle Silly Symphonies, e già nei giorni successivi si inizia a parlare con insistenza sempre maggiore di quel gioco con le tazzine buffe e la grafica da cartone animato, oltretutto pure esclusiva Xbox. Da lì ci vuol poco a far nascere l'aura da piccolo cult, anche se la consacrazione effettiva arriva solo e soltanto un anno dopo, quando, dopo la prima apparizione "giocabile" alla GDC 2015, mi viene finalmente concesso di toccare in prima persona la luciferina creatura di Studio MDHR (un team di esordienti canadesi composto dai fratelli Chad e Jared Moldenhauer, che per l'occasione non esito a stalkerare con fare un po' molesto durante l'E3 successivo). 

C'è poco da fare: controller alla mano, la cottarella, il colpo di fulmine, il giramento di testa di quando ti innamori per strada della fighetta di turno che dimentichi trentacinque secondi più tardi, si sposta con brutale prepotenza verso il basso, con l'insistenza e il formicolio tipico dell'erezione che inizia a farsi sentire perché, oh, alla fine siamo fatti di carne e anche il cazzo vuole la sua parte. Ce la fa, 'sto Cuphead, madonna se ce la fa. Non è mica solo bello da guardare, ma va: è stronzo al punto giusto, è reattivo da morire, è preciso, è letale, è bellissimo nella teatralità old school dei suoi scontri coi boss. E poi le musiche, il filtro della pellicola rovinata sull'immagine, le animazioni danzanti con quelle pose esasperate… lo voglio, lo bramo, lo desiro: oh yeah, quanto minchia me lo divorerei tutto, datemelo e datemelo pure in fretta.

E invece no, per aggiungere le fasi platform tanto richieste dal pubblico (e più in generale per ingrandire drasticamente la scala del progetto) subentrano i rinvii, le incertezze e i ritardi: Cuphead diventa una specie di chimera, di risposta marchiata verde Xbox a quell'utopia che è ormai The Last Guardian. Ma, come dicono nella pubblicità e forse pure in certi circoli BDSM, l'attesa del piacere è essa stessa il piacere. Anche se occhio a tirare troppo la corda, perché poi il rischio dell'effetto blue balls è sempre dietro l'angolo.

Dopo un'attesa spasmodica, però, finalmente lo scorso 29 settembre Cuphead decide che è venuta l'ora e si concede. E, nonostante le aspettative alle stelle – le mie, perlomeno, ma probabilmente non solo – cazzo, se ne valeva la pena. Se volete saperne di più, per approfondire con analisi dettagliate e sbrodolate varie ed eventuali, facciamo che potete indirizzare il browser qui e/o qui, andandovi a leggere rispettivamente un bellissimo articolo di Teokrazia e la recensione del gioco scritta da me medesimo.

Al di là di tutto, di Cuphead mi resterà tanto, tantissimo. Mi resterà la favola a lieto fine della famiglia Moldenhauer, gente che non sviluppava videogiochi ma nella vita faceva tutt’altro e che, per inseguire un sogno legato all’infanzia, ha avuto il coraggio di mandare tutto all’aria, arrivando addirittura ad ipotecarsi la casa (investimento in seguito ripagato dal successo tanto meritato, quanto fragoroso, del gioco).

Mi resteranno le sue perverse suggestioni surrealiste, il suo fascino lisergico e sulfureo, il suo flirtare apertamente con un immaginario al giorno d’oggi per lo più sconveniente e proibito, tuttavia in qualche maniera sepolto (in)consciamente nella nostra memoria collettiva.

Mi resterà quel viaggio in un’ambientazione mesmerizzante, popolata di personaggi indimenticabili – il drago, il treno fantasma, la carota gigante, i due ranocchioni, la sirena/medusa e la baronessa fatta di dolci, tanto per citare i primi che mi vengono in mente – legati a doppio filo con una realizzazione tecnica a dir poco maniacale e un gameplay di razza, capace di sostenere senza colpo ferire il confronto diretto con gli antichi colossi del genere.

Mi resteranno le ore, credo almeno una trentina, spese a perfezionare ogni singolo boss fight, a sudarmi millimetro dopo millimetro ogni fottuto colpo anche a livello Expert, arrivando a prendere “A” ovunque tranne che contro quell’adorabile figlio di puttana di King Dice (confesso: in quel caso nemmeno ho voluto provarci, dopo le sberle prese a livello Normal).

Mi resterà il mare di gadget che non ho potuto fare a meno di acquistare – dalle scodelle in porcellana con le teste dei due protagonisti al vinile con la stupefacente soundtrack, passando per l’action figure di Funko del Diavolo e qualsiasi altra cazzata mi capiterà in futuro sotto mano – perché Cuphead, per me, è diventato qualcosa di più di un videogioco, sconfinando nell’ossessione che mi tatuerei addosso (posto che a questo punto nemmeno serve, visto che le viziose tazzine già mi hanno lasciato un marchio indelebile sul cuore).

E allora nulla, c’è poco da fare: Cuphead a suo modo ha scritto la storia e soprattutto ha scritto la mia, di storia, perché un’esperienza così la porterò fino alla tomba. Siamo senza dubbio alcuno dalle parti dei miei giochi preferiti di ogni tempo, e più in generale, credo abbastanza oggettivamente in piena zona instant classic. Altro che “non fare affari col Diavolo”, come recita il sottotitolo: qui, a giudicare dai risultati, c’è solo e soltanto da rendere gloria al caro vecchio Satana. Concludo quindi come avevo concluso il mio paragrafetto per i GOTY 2017, perché credo che non ci sia niente altro da aggiungere: evviva Cuphead, evviva Lucifero, lunga vita a Studio MDHR.

Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.