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I (nostri) migliori anni del videogioco: 2011, non ce la faccio, troppi ricordi

Dodici mesi volano in un soffio e il 2011, per vari motivi, è stato un anno per velocissimo, di quelli che un attimo prima hai la bottiglia di spumante in mano e cinque minuti dopo è già autunno di nuovo. Vari cambiamenti lavorativi e di vita, ma non solo: per una persona che, soprattutto al tempo, faceva del videogioco non solo una passione ma anche un mestiere, riguardare oggi la lista dei titoli usciti in quell’annata porta facilmente a comprendere come mai sia volata così in fretta. In questa serie di articoli avete letto e leggerete senza dubbio di anni anche abbastanza lontani e certo, è facile dire “In quell’anno è uscito Half-Life e ha cambiato tutto”. Per tirare bilanci netti di questo tipo, il 2011 è forse ancora troppo vicino, eppure non è difficile rimanere a bocca aperta di fronte ad una line up davvero devastante.

Quell’inverno sarebbero arrivate delle belle bombe, tra Dark Souls, Uncharted 3: L'inganno di Drake e The Elder Scrolls: Skyrim, ma il “mio” 2011 è stato segnato soprattutto da Deus Ex: Human Revolution, quindi, mentre ne parliamo, vi ascoltate questa.

Quel gioco mi innervosiva di brutto, roba da iniziare a mangiarsi le unghie tutte le volte che saltava fuori l’argomento. C’è questo fatto che io e un certo tipo di cyberpunk andiamo proprio d’accordo: quel cyberpunk un po’ tinto di noir, alla Blade Runner, insomma, e già s’era capito che Eidos Montreal andava a parare da quelle parti, con questa rilettura un po’ ocra e un po’ barocca del futuro prossimo, scrollandosi di dosso il low tech e puntando tutto sulla tematica degli augmented, esseri umani che abbracciano più o meno volontariamente gli impianti cibernetici. Inutile dire che poi finisce tutto in vacca. Peraltro, in quegli anni, Blade Runner sembrava proprio morto e sepolto, e, con le debite differenze, qualunque cosa vi si ispirasse anche solo vagamente si tramutava per me in immediato interesse. Le premesse per il gioco della vita c’erano tutte, dal design, alla colonna sonora potentissima, ad una trama che pareva davvero matura, eppure c’era sempre quella preoccupazione di fondo legata all’eredità tostissima da portarsi dietro. Non ero e non sono un superfan dell’originale, non tanto per il suo valore intrinseco ma ahimé perché ci ho giocato in colpevole ritardo, subendo un po’ troppo l’invecchiamento delle meccaniche e soprattutto delle I.A., eppure ero perfettamente conscio del peso specifico enorme di quel brand. Il resto è storia: Human Revolution è uscito ad agosto di quell’anno e io l’ho davvero adorato. Adam Jensen era un personaggio forse non profondissimo ma dannatamente cazzuto, merito anche di un doppiaggio fortissimo (perlomeno in inglese), il gameplay era meravigliosamente “creativo” e lo stile, con contaminazioni da Neuromante che nemmeno avevo del tutto previsto, mi ha veramente preso in piena faccia. Non mancavano difetti e debolezze qui e là, ma per me è stato un parco giochi bellissimo. Peccato che il sequel si sia poi limitato al compitino, proponendo un mero “di più” senza colmare le lacune del capostipite, ma sto divagando.

Passiamo, in ordine rigorosamente ad cazzum, alla seconda ossessione del mio 2011, con la dovuta sigla.

Nessuno sapeva chi fosse Team Bondi e ancora oggi mica l’abbiamo capito. Io ho sempre avuto quest’immagine di marziani vestiti di tutto punto che fumano narghilé seduti su dei tappeti volanti, il cosmo a mo di retroscena e della musica anni Trenta a cornice. Per concepire un gioco così, che “spreca” un intero open world solo ed esclusivamente per fare da sfondo ad una storia di fatto super lineare, bisogna essere proprio matti. Puntare tutto su una tecnologia di performance capture rivoluzionaria e poi ambientare la trama nella Los Angeles degli anni Cinquanta era un azzardo già di per sé, ma anche chiamare a raccolta un cast incredibile e poi nascondere alcune performance a 10/15 ore di gameplay dall’inizio. C’è davvero della follia, in L.A. Noire, tanti piccoli elementi che fanno pensare a un team di sviluppo sì geniale e coraggioso, ma anche terribilmente sregolato. È uno di quei prodotti per i quali mi piacerebbe leggere un libro o vedere un documentario che ne racconti la gestazione, che spieghi meglio il rapporto che ha legato il team di sviluppo a Rockstar e che racconti i retroscena, perché sono dannatamente certo che ve ne sono di davvero interessanti. È anche un gioco che ho amato moltissimo. In quegli anni avevo ancora la testa piena degli echi di Heavy Rain ed ero convinto che la narrazione, e non il gameplay, avrebbe cambiato il videogioco. Ero un idealista, insomma, forse con delle visioni un po’ estreme, che poi si sarebbero ridimensionate, ed è anche lecito che non ve ne freghi nulla. Rimane il fatto che L.A. Noire è ancora oggi una produzione davvero unica nel suo genere, un mix assurdo di investigazione, trama a tratti degna del miglior Ellroy e una “recitazione digitale” che su schermo non era mai stata così tangibile. Capisco bene che i puristi del gameplay ci abbiano visto poco di interessante, ma per chi è appassionato di narrativa, l’odierna riedizione in HD rappresenta un’occasione ottima di recuperare un prodotto quasi sperimentale, seppure in una confezione mass-market. Forse è un bene che Whore of the Orient, il successivo gioco di Team Bondi, sia rimasto incastrato nelle pieghe di un prevedibile fallimento dello studio: ripetere una seconda volta quell’assurda magia sarebbe stato quasi impossibile.

In apertura dicevo dell’inverno e delle bombe. Pazzesco pensare che in nemmeno un mese si sia passati dal prendere le padelle in faccia di Dark Souls al vagare per ore tra le nevi perenni di Skyrim, ed è incredibile quanto queste due esperienze abbiano avuto un impatto fortissimo sugli anni successivi, al punto che oggi, passato quasi un decennio (un’eternità, in campo videoludico) gli echi si sentano ancora, e di brutto. Entrambi i giochi, soprattutto Skyrim, vendono copie ancora oggi e capitalizzano su una fama che è esplosa quasi sin da subito. È vero, ho finito per giocarci più nel 2012 che nel 2011, ma poco conta, sono due prodotti che hanno capitalizzato il nostro immaginario di giocatori in maniera incredibile, sono diventati due metri di paragone qualitativi e quantitativi, e, cosa curiosa, nessuno dei due era nemmeno lontanamente rivoluzionario, graficamente parlando: a dimostrazione del fatto che alla fin fine sono i contenuti a decretare l’impatto che un videogame avrà sui decenni successivi. E qua ci piazziamo questa, che appena partono le prime note ti sale il Fus Ro Dah e la canti facendo po-po-po.

Potremmo star qui ore a discutere del perché Skyrim abbia avuto un impatto così forte sull’immaginario di sviluppatori e videogiocatori, io mi limiterò a ripetere quello che dico sempre: partivi per una missione e dopo tre passi ti eri già perso, un dettaglio aveva colto la tua attenzione, qualcosa era successo lungo il cammino e bam, quindici minuti dopo ti trovavi in una rovina Dwemer a combattere un ragno meccanico gigante e manco sapevi come fossi finito lì. Tanto basti per capire che un’esperienza free roaming così non s’è ancora rivista, e non che The Witcher 3: Wild Hunt e altri non ci abbiano provato, magari migliorando gli aspetti narrativi e di puro gameplay, ma senza mai sfiorare gli apici raggiunti da Bethesda relativamente alla creazione di un mondo meraviglioso da esplorare. Dark Souls ha lasciato un segno per motivi diversi, e io non sono proprio la persona adatta a parlarne: mi ero divertito con Demon’s Souls perché era mezzo sconosciuto e solo import, almeno all’inizio, e quella sensazione di “dissotterramento” mi era molto piaciuta. Farne un franchise è stata chiaramente un’idea di successo in ambito commerciale, ma non ha fatto impazzire me, che ero piuttosto contento con il capostipite e preferivo considerarlo una meteora, piuttosto che un brand ricorrente. Per tutti gli altri che ci sono rimasti sotto, il 2011 è veramente stato un anno fuori di testa. Non dimentichiamoci poi di Uncharted 3, che a vederlo in prospettiva è stato sicuramente il fratello un po’ sfigato della quadrilogia, ma ha comunque offerto delle sequenze memorabili, dalla cavalleria del deserto fino al decollo dell’aereo. E poi ha questa intro song qui, che quando partono gli archi - più o meno a 1.10 - a me, per qualche strano motivo, viene sempre il magone, vai a sapere.

E pensare che non ho nemmeno citato Dead Space 2, che soprattutto oggi, con i battenti di Visceral tristemente chiusi, parte proprio il momento tristezza. Avevo amato alla follia il primo, nonostante in Italia avessero cercato di rovinarlo con il marketing e il doppiaggio della famiglia Argento, e il secondo mi ha trascinato nonostante il concetto di base fosse un mero bigger and better (e anche un bel po’ più action): quanto godere e che stile sci-fi meravigliosamente rugginoso e “pratico”. E The Witcher 2: Assassins of Kings? In pratica, ogni volta che mi cadono gli occhi sulla lista dei giochi usciti nel 2011, partono venti minuti di

Facciamo che la chiudiamo qui, con una considerazione: c’è un motivo ben preciso per il quale il 2011 ha regalato una quantità tale di giochi memorabili da rendere difficile oggi parlarne in maniera organica senza sfociare nel walltext della morte, ed è legato perlopiù alla maturità raggiunta dalle piattaforme. Xbox 360 e PlayStation 3 erano in giro da cinque-sei anni, e l’attuale generazione di console sta per raggiungere quello stesso ciclo, proprio a cavallo tra il 2018 e il 2019. Se la storia ci insegna qualcosa, ci troviamo alle porte di un biennio destinato a regalarci le pietre miliari alle quali guarderemo per il prossimo decennio. I segni sembrano puntare tutti lì, vogliamo crederci tutti insieme molto forte?

Il 2011 riassunto in maniera arbitraria e incompleta: Assassin's Creed: Revelations, Batman: Arkham City, Child of Eden, Dark Souls, Dead Space 2, Deus Ex: Human Revolution, The Elder Scrolls: Skyrim, Jetpack Joyride, L.A. Noire, The Legend of Zelda: Skyward Sword, Mario Kart 7, Portal 2, Rayman Origins, Super Mario 3D Land, Uncharted 3: L'inganno di Drake, The Witcher 2: Assassins of Kings.

Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.