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Provare a voler bene all'universo cinematografico DC

È una faccenda in larga misura casuale, o comunque figlia di malagestione, tempismo scombinato, magari anche un po' sfiga, però ci vedo anche una certa forma di poesia. Da un lato abbiamo l'universo fumettistico DC, così incentrato sul mito e sull'eroe in quanto divinità (ce ne hanno parlato abbondantemente Dario e Andrea), che al cinema e in televisione ha (quasi) sempre funzionato benissimo, ma (quasi) solo dedicandosi alle sue figure più potenti, alla santa trinità di Superman, Batman e Wonder Woman, con l'uomo pipistrello figura centrale anche nei casi in cui si è provato a deviare altrove (penso a Suicide Squad, ma anche ad Arrow, che segue molto il modello di Batman e pesca tantissimo dal suo pantheon di antagonisti). Dall'altro abbiamo una Marvel, casa dei supereroi umanissimi con superproblemi umanissimi, che ha faticato per decenni nel tentativo di uscire dai confini fumettistici e ha visto le sue esplosioni cinematografiche partire dagli outsider. Perché sì, i primi anni '00 hanno visto trionfare Spider-Man e X-Men, ma ad aprire le porte è stata una figura estremamente di contorno come Blade. E quando sono entrati in gioco i Marvel Studios, sono stati costretti a lavorare su seconde e terze linee, giocandosi tutto sulla forza dell'umanizzazione.

Magari sovrainterpreto. Anzi, sicuramente sovrainterpreto, è una delle mie specialità, ma avevo questo pensiero che mi frullava in testa e mi sembrava un punto di partenza come un altro per una chiacchierata su questo universo cinematografico DC, nato dalle ceneri di decenni in cui Batman era la carta sicura e quasi infallibile, Superman dava comunque parecchie soddisfazioni (anche se più in TV che al cinema), Wonder Woman (per lo più col senno di poi) faceva da grande asso nella manica, ma tutto il resto sembrava destinato al fallimento. Poi, però, sono arrivati l'Arrowverse (ne parliamo dopodomani) e questo sconclusionato, criticatissimo ma in fondo premiato dal pubblico tentativo di inseguire il fenomeno Marvel. Che fra l'altro sembra l'eterna guerra tra FIFA e PES (o qualsiasi genere di guerra in ambito videoludico, anche fra produttori di console), con chi un tempo dominava che continua a funzionare ma viene sorpassato e seminato e finisce per gettare alle ortiche ogni senso di identità per reinventarsi, lanciarsi in scia e poi chissà…

E poi chissà.

Fatta tabula rasa del passato (si fa per dire, considerando che Danny Elfman minaccia il recupero di vecchi temi musicali per Justice League), con quattro film in archivio e un'esecuzione accelerata della formula Marvel, Warner Bros/DC è pronta al lancio definitivo del suo universo, con il film corale che unisce gli eroi principali e aggiunge un paio di satelliti dall'importanza variabile. Ha corso talmente tanto da arrivare per prima – sbancando – all'appuntamento con il film dedicato a una protagonista donna, anche se sul fronte “eroe di colore che non fa da spalla comica” vince Marvel. È una continua rincorsa ed è una rincorsa che vede in testa chi prosegue per la sua strada guardandosi pochissimo indietro, mentre in coda ci sta chi tenta continui aggiustamenti di rotta cercando di trovare una via personale che, a conti fatti, mescoli ciò che funziona con il tentativo di avere un'identità propria. In casa Fox sembrano aver imboccato un percorso fatto di sbudellamenti e imprecazioni, in casa Warner hanno deciso di mediare il taglio “divino” e serioso dei personaggi, a cui non si può proprio rinunciare e che in fondo costituisce elemento chiave della mitologia di partenza, con un approccio più umano, terra terra, umoristico, per altro dettato in una certa misura anche dai personaggi. Perché l'idea che il supergruppo di tizi in costume che può anche far ridere, con un Batman serissimo che regala spunti comici a catinelle, non l'ha certo inventata Joss Whedon. E anche perché personaggi come Flash e Cyborg si portano per forza dietro uno strato di umanità e un elemento di normalizzazione inevitabili, rispetto all'alieno onnipotente, alla divinità femminista e allo psicopatico che vive solo quando indossa una maschera. Insomma, pur dando l'impressione di procedere a braccio e per tentativi, mi sembra che la strada pian piano intrapresa abbia senso. Come sia stata intrapresa e con che risultati, al limite, è altro discorso. Ma oggi voglio essere positivo.

L'idea, dicevo prima, è di chiacchierare un po' dell'universo cinematografico DC fino a qui. Ma, insomma, immagino che di articoli esaustivi e ricchi di informazioni, riferimenti ai fumetti e analisi approfondite se ne trovino tantissimi. Serve una qualche chiave. Scelgo quella dell'ottimismo. Non sono un fan sfegatato dei fumetti DC. Li amo, ne ho letti in quantitativi smodati, ho adorato tanti cicli narrativi e conoscono molto bene quel mondo, perlomeno nelle sue evoluzioni fino a qualche anno fa, ma a un certo punto ho mollato il colpo, ho smesso di seguire e me ne sono rimasto adagiato in zona Marvel, che rimane il mio primo e principale amore supereroistico (e che comunque, pure lei, non seguo più come una volta). Come mai? Vai a sapere. La sostanza, però, è che non sono un fan sfegatato ma conservo una certa dose di amore. Aggiungiamoci che mi piacciono gli adattamenti che hanno il coraggio di stravolgere e ribaltare e abbiamo la somma dei motivi per cui, alla fin della fiera, non faccio fatica a trovare del buono in questi film. Figuriamoci, sono riuscito a divertirmi (moderatamente) perfino con quel disastro di Lanterna Verde!

Quindi, mettiamola così: oggi voglio chiacchierare di questi quattro film provando a inquadrarli in luce positiva. Voglio mettere in fila i motivi per cui mi sono piaciuti, anche quando non è che mi siano piaciuti poi molto. Proviamoci.

Vince Marvel, dicevo.

L'uomo d'acciaio è figlio di un dramma creativo non da poco. Come fai a riportare in vita il Superman cinematografico in un mondo che sembra dominato dai supereroi umanizzati, dove non pare esserci più spazio per l'ottimismo fanciullesco donneriano (e il – problematico ma sottovalutato, se lo chiedete a me – Superman Returns di Singer non ha proprio convinto), dove l'esplosione cinematografica marvelliana è stata lanciata dal vampiro cacciatore di vampiri depresso e dai mutanti in tuta di pelle nera che perculano lo spandex, dove – per restare in casa tua – la decostruzione del Pipistrello by Cristopher Nolan ha sbancato e il Lanterna Verde scemotto di Martin Campbell ha fallito? Beh, qualcuno potrebbe dire che ti stai ponendo la domanda sbagliata e dovresti renderti conto che i film Marvel Studios hanno ormai normalizzato e sdoganato un certo tipo di supereroe scanzonato, buffo, che la butta per aria con i mantelli e le mitologie norrene. Ma in fondo la scelta di un Superman Snyderiano e Nolaniano, se vogliamo, è intrigante e coraggiosa anche per questo. Mentre il mondo va in una direzione, Warner resta fedele a sé stessa e insiste sul percorso dell'algida mitizzazione. O magari non è coraggio, e semplice decidere di insistere su ciò che per te ha funzionato fino a lì, mentre l'altra strada non sembri proprio in grado di seguirla. Vai a sapere.

Fatto sta che L'uomo d'acciaio applica l'estetica da pneumatico pioggia e l'approccio da decostruzione deprimente nolaniana al personaggio di Superman, mescolandola però con la divinizzazione e la potenza surreale delle immagini di Zack Snyder, andando a creare un corto circuito insensato. Il suo Superman è, innanzitutto, il primo a mostrare dei ceffoni kryptoniani realizzati con effetti speciali in grado di restituirne la potenza. Che, per carità, non è necessariamente una gran conquista cinematografica, ma quando stai portando sul grande schermo il supereroe più divino di tutti, beh, trasmettere per la prima volta ciò che davvero è in grado di fare e di essere ha un suo peso. Dietro alla tracotanza visiva, all'amore per il rallentatore, alla voglia disperata di creare innanzitutto un'icona, al ricopiare con la carta carbone questa o quell'immagine significativa… dietro a ciò che Zack Snyder sa fare bene, insomma, c'è quel che Zack Snyder tende a trascurare e, quando ci si mette, dimostra proprio di non saper fare bene. Tipo raccontare una storia. Però, tutto sommato, ci sono anche le basi per una lettura del personaggio abbastanza diversa dal solito, o comunque da come il cinema ce l'aveva sempre venduto. C'è un Kal-El/Clark Kent timoroso, inesperto, incapace di prendere decisioni, nascosto nell'ombra di un padre che ne opprime lo spirito eroico, talmente impacciato nel gestire le situazioni da arrivare a compiere l'azione più contraria alla natura del suo personaggio, uccidere, non per calcolo, come nel Man of Steel fumettistico, ma per panico del momento. In fondo è il Superman di Richard Donner, ma riletto attraverso una lente scura e deformante, tipo quella degli occhiali per il 3D. Ed è tutto un po' impacciato e pasticciato, ma ci sono spunti interessanti, c'è qualcosa, o quantomeno il tentativo di fare qualcosa, e ci sono delle basi da cui si può costruire qualcosa d'altro. A distanza di quattro anni, e con il “ma” dettato dal mio non averlo mai rivisto, rimane forse ancora il mio preferito di questi nuovi film DC e ne ricordo fra l'altro con affetto la colonna sonora, fra le poche recenti di Hans Zimmer che ho riascoltato con piacere e capaci di tirar fuori un tema che mi rimanesse nel cuore. Insomma, non benissimo ma bene.

Batman V Superman: Dawn of Justice parte da quanto di buono si poteva prendere del film precedente e fa esplodere le cose in ogni direzione. È un'opera enormemente pasticciata, che mescola tre o quattro film diversi in uno nel tentativo di essere allo stesso tempo secondo film del nuovo Superman, primo film del nuovo Batman, film introduttivo della nuova Wonder Woman e film che fa da prologo della nuova Justice League, accelerando i tempi per inseguire la concorrenza, adattando in corsa un progetto che non era nato con questi intenti. E tutto questo resta nelle mani di Zack Snyder, che continua ad avere e a sfruttare i pregi citati sopra ma continua anche ad avere i limiti sempre citati sopra. Salta fuori che non è facile raccontare decentemente tutto ciò che c'è da raccontare con un'operazione del genere, magari mentre approfondisci a dovere i temi interessanti legati alla necessità di responsabilità per chi demolisce metropoli a cazzotti e supporti il prendersi mostruosamente sul serio che questi film, fino a qui, sembrano voler inseguire. C'è da stupirsi se ne viene fuori una roba estremamente frettolosa, che spreca tanto il suo materiale, non sembra capace di prendere una strada precisa e, alla fin fine, ha i suoi pregi maggiori nel modo in cui fotocopia immagini iconiche dei fumetti, in alcune scelte di casting azzeccate e nella forza brutale che ogni tanto Snyder riesce a restituire con le sue immagini? No. È un polpettone infinito con un inizio fenomenale, un gran casino nella parte centrale e qualche immagine azzeccata a punteggiare il disastroso macello finale, scritto in maniera stupidina ed efficace solo in parte nel suo essere fumettone. Parte finale in cui, fra l'altro, inizia anche il calare le braghe sul fronte dell'umorismo, passando dal Superman del primo film, che si concedeva di accennare un sorriso e mostrare un pizzico di gioia, molto trattenuta, solo la prima volta che volava, alla mamma di Superman del secondo film, che si lancia in battutine sarcastiche chiacchierando con Batman mentre è circondata dai cadaveri dei terroristi che l'avevano rapita.

Braghe calate, pirla su celluloide, D. Ayer, 2016.

E le braghe non si rialzano con Suicide Squad. Sulla carta e nel mondo dei sogni, l'idea di un film dedicato a psicopatici e criminali dell'universo DC curato dal regista di film come Harsh Times ed End of Watch o, tutto sommato, volendo mirare basso, anche solo Sabotage, era roba da leccarsi i baffi. Nella tragica realtà dei fatti, ne è venuto fuori un pasticcio produttivo senza capo né coda, talmente impegnato a sforzarsi di scimmiottare Guardiani della galassia che a furia di spingere ha fatto uscire lo stronzo. Forse, in un mondo parallelo in cui Suicide Squad nasce con lo spirito produttivo che ha portato Fox a produrre Deadpool e Logan, ne sarebbe venuto fuori un bell'oggetto apprezzabile. In questo mondo ne è venuto fuori un pasticcio clamoroso, completamente scombinato e fuori misura, che le tenta tutte, le sbaglia quasi tutte e per una pura questione di numeri trova qualcosa che funziona, fra l'altro nei modi più inattesi (tipo il divertentissimo capitan Boomerang di Jai Courtney, la splendida prima trasformazione dell'Incantatrice o l'idea allucinata di un padre che aiuta la figlia a fare i compiti tramite il cecchinaggio). Però, ehi, ho detto che voglio guardare i lati positivi e non ho problemi a farlo: qualcuno l'ho menzionato, posso aggiungere che ci sono bei lampi visivi e che, in generale, il ritmo funziona e lo spirito leggiadro, pur mancando spesso il bersaglio, si fa apprezzare. O quantomeno si fa apprezzare dopo le due ore e mezza di prendersi sul serio altrettanto fuori bersaglio del film precedente.

Come ti salvo la baracca, dea su celluloide, P. Jenkins, 2017.

Infine (si fa per dire) arriva Wonder Woman, un film che, a voler spaccare i maroni, è pieno di difetti ma in questo contesto emerge come opera d'arte e ha comunque dalla sua una personalità comunque distinta (bisogna dare atto che, fino a qui, ogni singolo film ha saputo evitare di uniformarsi). Ma soprattutto, Patty Jenkins sembra aver trovato la sintesi giusta tra afflato mitologico e ricerca del senso epico, dosando voglia di sdrammatizzare scherzandosi addosso, ansia da universo condiviso e necessità di raccontare una storia che funzioni comunque per i fatti suoi. È un film che ci restituisce il terzo vertice del triangolo DC, troppo a lungo dimenticato dopo i successi televisivi dei bei tempi, e lo fa con un'attrice che ne interpreta la natura fuori dal mondo in maniera clamorosa. È un film che, pur nelle sue contraddizioni, da voce in maniera efficacissima al desiderio di avere una protagonista donna davvero supereroe che spacca i culi e non chiede scusa. È un film gradevole, magari sopravvalutato ma comprensibilmente tale, dato il momento storico, che sembra aver imparato la lezione giusta e aver trovato la formula corretta per dettare la strada dell'universo cinematografico DC. Vedremo come si andrà avanti da qui, cosa verrà fuori da questo Justice League figlio illegittimo delle due scuole un tempo nemiche, dell'unione pagana fra Zack Snyder e Joss Whedon. Se devo essere onesto, i trailer e, soprattutto, i poster mi sono parsi agghiaccianti, al di là di una o due battute simpatiche. Però, ehi, oggi voglio essere positivo.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Justice League & Friends", che trovate riepilogata a questo indirizzo.