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Stranger Things: pensavo fosse orrore e invece era un calesse

Inutile negarlo, mi sono avvicinato a Stranger Things con la peggior predisposizione possibile. Giunto ormai ben oltre il limite della sopportazione per la totale perdita di controllo sullo sfruttamento della nostalgia senza capo né coda (fun fact: nello stesso periodo ho letto Player One e l'ho trovato poco più che mediocre), ero convinto che il turbinio di citazioni e situazioni figlie della carta carbone archeologica mi avrebbe fatto innervosire a morte. Poi, no, certo, non era proprio la peggior predisposizione possibile, perché tutto sommato mi ero anche convinto che sotto quella coltre di fastidio avrei trovato una serie gradevole e divertente, ma insomma, diciamo che l'ottimismo non volava. Col senno di poi, mi sa che era invece la migliore predisposizione possibile, quella che ti abbassa speranze e aspettative e ti porta ad apprezzare più del dovuto gli aspetti positivi, ad essere talmente colto di sorpresa che finisci per goderti tutto al meglio. Perfino le citazioni. O magari è solo che Stranger Things è proprio bello e mi sarebbe piaciuto molto anche se l'avessi guardato appena uscito, o comunque relativamente poco dopo, quando ancora internet era sommersa dall'esaltazione comunitaria al riguardo. Vai a sapere.

(Questo articolo nasce più che altro a seguito di una discussione che ho intrattenuto su Facebook con Stanlio Kubrick, cui ho poi proposto di scrivere un pezzo di reazione uguale e contraria, nel quale avrebbe invece fatto il negativo. Ho una mezza idea di impaginarli assieme, su due colonne, ma sono abbastanza convinto che il risultato mi farà cagare e deciderò di pubblicarli separatamente. Oppure no, magari le aspettative mi fregano anche qui. Vai a sapere.)

Ci sono tanti motivi per cui ho apprezzato Stranger Things e pochi per cui capisco senza problemi che possa respingerti in maniera violenta. Il maggior punto di contenzione, è ovvio, sta nel lavoro di ricalco, nel modo in cui ti vomita addosso tutto il pescabile dagli anni Ottanta, pure con qualche sprazzo preso altrove, e lo impasta assieme come se dovesse fare degli spaghetti alla chitarra di ciò con cui i Duffer e noi siamo cresciuti. Da un lato, mi suona assurdo che questo lavoro di recupero e rielaborazione possa dar fastidio, perché quando un Raimi o uno Zemeckis riproducono alla lettera un’inquadratura di un regista che amano siamo tutti lì a tirarci i segoni e perché in fondo è quel che facevano anche tanti autori più o meno grandi che abbiamo amato proprio negli anni Ottanta. Oggi i Duffer lavorano sugli eighties, ieri i Lucas e gli Spielberg lavoravano sulla loro, di giovinezza, compiendo un recupero che a noi, magari, suonava meno strano perché si trattava di materiale che non avevamo conosciuto da bambini. Chissà se anche i nostri genitori si dividevano fra chi apprezzava l’afflato nostalgico e chi si incazzava per tutto ‘sto copiare. Io, onestamente, non me lo ricordo. Vai a sapere.

Però, certo, un Indiana Jones non era solo carta carbone, c’era comunque un lavoro di rielaborazione notevole, c’era un senso di freschezza nella scrittura di personaggi e situazioni che dava al tutto un taglio comunque estremamente originale e nuovo. In Stranger Things, tocca essere onesti, di nuovo c’è proprio poco. È quasi tutto già visto e risaputo, i personaggi non hanno molto di nuovo da dire e quindi si affidano solamente a un’opera di riciclo che, per quanto piacevole e ad ampi tratti eseguita con ottimo gusto, può risultare stantia. Insomma, lo capisco, eh. Se non ci trovi niente di nuovo e, oltretutto, hai ben stampati nella memoria i modelli di riferimento, a un certo punto, la centododicesima sequenza, il quarantaduesimo personaggio e la quindicesima svolta narrativa derivati da E.T., da Carpenter, da [inserire a piacere] si fanno stucchevoli. E capisco anche che, quando la campagna pubblicitaria della seconda stagione spinge SOLO su quello, un po’ ti caschino le braccia. Però, se lo chiedete a me, Stranger Things non è solo quello. E i suoi pregi non stanno solo in un cast incredibilmente azzeccato e affiatato, che funziona talmente bene da dare (quasi) un senso anche alla recitazione totalmente sopra le righe di Winona Ryder, che sembra sotto anfetamine, e a quella di Matthew Modine, che pare invece essersi dato all’eroina. No, c’è anche altro.

“Ma tu dimmi come si permette questo.”

E in ogni caso bisogna comunque dirlo, che il cast è fenomenale. È fenomenale per quanto riesce ad essere affiatato. È fenomenale per la bravura di alcuni singoli che spiccano su tutti gli altri. È fenomenale perché funzionano tutti, ciascuno alla propria maniera. Ed è fenomenale anche nelle scelte nei volti, in queste facce sporche, ruvide, dai tratti quasi mai delicati e amichevoli, con quell’aria in larga misura normale, lontana dai volti plastificati hollywoodiani che spesso ci si ritrova davanti. Il cast fa la differenza, in Stranger Things, e del resto non è un caso se il tripudio di marketing e viralità che è nato dalla serie, oltre che sulle citazioni, si appoggia proprio sui personaggi, sulle mossette di Winona, sul talento e il carisma pazzeschi di Millie Bobby Brown, sulla sugna che David Harbour esprime da ogni poro, sulla dolcezza assoluta del cast di bambini, davvero difficili da non adorare. Al centro di tutta la faccenda ci sono loro, gli attori e i personaggi, che funzionano, c’è poco da dire.

Ma funzionano anche perché Stranger Things dà il suo meglio non tanto nell’elemento fantastico o nell’orrore che si nasconde (letteralmente) fra le pareti, piuttosto nel tratteggiare brevemente le vite di queste persone e caratterizzarle con gran gusto. Il lato più umano delle vicende viene affrontato con delicatezza, giocandosi tutte le carte più prevedibili ma facendolo sempre nella maniera giusta. Un esempio su tutti: quando viene mostrato l’intuibile passato di Jim Hopper, lo si fa col tatto che piace a noi, senza scivolare nel facile melodramma spinto oltre ogni modo che avremmo visto altrove. E, in generale, è chiaro che si tratta in larga misura di un lavorare sui cliché, ma c’è anche una bella capacità di prendere quei cliché e giocarci un po’, magari perfino sovvertirli, far prendere a certi rapporti fra i personaggi (penso per esempio al trio di adolescenti) una via che non è necessariamente quella che avremmo visto nei film da cui Stranger Things pesca a piene mani.

E soprattutto, la forza e l’unicità di Stranger Things sta anche nella maniera in cui riesce a raccontare la sua storia trattando con la stessa dose di rispetto e di attenzione i tre punti di vista che offre. In un mondo dell’entertainment che sembra essere in grado di ragionare solo per fasce d’età (gli young adult, il film maturo, la storia per bambini… ) e fatica a trovare la capacità di raccontarsi in maniera trasversale, chi ha la voglia, la forza e tutto sommato anche il coraggio di farlo finisce per spiccare, è inevitabile. Viene da pensare a Friday Night Lights e al modo in cui incentrava sì il suo racconto sulle vite dei protagonisti adolescenti, ma riusciva a dare quasi sempre altrettanta importanza al punto di vista adulto sulle vicende di Dillon e, nelle ultime due stagioni, allargava il discorso tracciando il percorso di tre diverse generazioni. Non è una cosa che si vede molto spesso.

Ecco, Stranger Things, pur rimanendo comunque una storia di genere, che gioca con la fantasia e non si limita all’elemento umano del racconto, riesce a compiere quel gioco di equilibrismo in maniera perfetta. Ci si può aspettare che ruoti tutto attorno alle vicende dei ragazzini, perché il marketing, la loro emergenza come fenomeni da meme e il gioco nostalgico spingono verso quella direzione, ma si tratta in realtà di tre storie parallele, tre punti di vista generazionali che si intersecano e convergono fra loro. Il racconto dei più giovani, quello del trio di adolescenti e quello degli adulti che vivono a Hawkins hanno tutti la stessa dignità, lo stesso peso e la stessa forza. Si evolvono in parallelo, secondo strade che non sono mai subordinate l’una all’altra ma non potrebbero fare a meno l’una dell’altra. C’è veramente la capacità di parlare tre lingue diverse facendole intersecare fra di loro e unire in un’opera unica tre storie che altrove avrebbero fatto da punto focale. Che poi tutto questo avvenga per mezzo di un’ottima sintesi, nell’arco di otto puntate, senza cedere alla logorrea che affligge tante produzioni Netflix, è veramente roba da spellarsi le mani. Perché poi, ogni tanto questa cosa va detta, l’isola felice del produttore che ti mette in mano il budget e ti lascia fare quello che vuoi è fantastica, è comprensibilmente adorata dagli autori e dà vita a cose splendide, ma quante volte, guardando una serie Netflix, hai l’impressione che magari il contributo di un produttore esperto avrebbe dato una mano? Non so voi, ma io spesso.

Vogliamo menzionare un altro aspetto di Stranger Things che ho particolarmente apprezzato? Non aderisce al trappolone del fantastico in stile Wikipedia, che coglie fin troppa narrativa contemporanea, specialmente quella statunitense. Non sente il bisogno di far partire gli spiegoni, non si fa prendere dall’esigenza di raccontarci ogni singolo dettaglio, di mettere in bocca allo scienziato di turno mille e più parole per far sì che ogni cosa sia chiara. Anzi, se la gioca molto sul non detto, si limita a rendere esplicito ciò che serve e passa poi il tempo dedicandosi ad altro. Nel farlo, dimostra anche che siamo un popolo di rincoglioniti, capaci di inventarsi teorie e speranze basate sul nulla, scavandole in ogni angolo di cui non viene spiegato tutto tutto proprio tutto, ma quello è un altro discorso. E in fondo è pure divertente. Rimane che a me il fantastico poco attento allo spiegone piace. Poi, certo, nello specifico si tratta anche di adeguarsi alle leggi della serialità, lasciando aperti discorsi su cui potrai tornare in futuro, ma intanto questa strategia, in quell’universo comunque godibile per i fatti suoi che è la prima stagione di Stranger Things, funziona alla grande.

E per chiudere mi tocca tornare al punto di partenza, a tutta la questione degli omaggi, delle citazioni, del lavoro magari anche un po’ brutale compiuto sul ricalcare un intero decennio, che secondo me possiamo inquadrare in una maniera diversa. Stranger Things è il miglior reboot di una proprietà intellettuale anni Ottanta che si sia mai visto. No, ovvio, non lo è, non si basa ufficialmente su nulla, ma lo fa, lo fa eccome, e lo fa meglio di qualsiasi remake ci sia tragicamente capitato davanti agli occhi negli ultimi anni. Prende cose che abbiamo visto trent’anni fa e le rielabora per riproporle oggi, in chiave modernizzata (perché certe caratterizzazioni, penso per esempio alle nevrosi di mamma Winona, non erano esattamente la norma dell’epoca), rileggendo e riproponendo quella formula lì, di quei film pensati per tutte le età, che ti coinvolgevano, ti esaltavano, ti spaventavano anche un po’, ma ti davano un bel senso di sicurezza, di tranquillità. Lo fa bene, non pretende di essere altro. E magari non è abbastanza, eh, ma “lo fa bene, non pretende di essere altro” è più di quel che si può dire di tanta, tanta, tanta monnezza moderna. Quindi, insomma, bene così.

Anche se continuo a pensare che potevamo fare a meno di una seconda stagione. Ma vai a sapere, magari poi la guardo e cambio idea.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo.