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Racconti dall'ospizio #80: Dante, il sommo poeta delle sale giochi

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Il signor Dante era un tipo burbero, di poche parole, di quell'età adulta indefinita tra i quaranta e i sessant'anni che percepisci quando tu, di anni, ne hai sei e spiccioli. Andava in giro per Noli con un Apecar azzurro e aveva un cane vecchio e stanco, con escrescenza sotto il mento, che si trascinava in giro per il mondo con lo stesso entusiasmo del suo padrone: nullo.

Il signor Dante aveva due funzioni. Si manifestava negli stabilimenti balneari all'inizio della stagione estiva, portando i cabinati o venendo a sostituire le schede, ed era il titolare della sala giochi, l'unica del circondario, davanti alla quale passavo tutti i giorni con mio nonno, di ritorno dalla spiaggia. Non aveva un nome, né un'insegna. All'ingresso c'era un banco dove lui, smarrito nel mezzo del cammin dello scazzo esistenziale, distribuiva gettoni in cambio di soldi. Lo faceva quasi con una nota di disprezzo, come se quei giochi meravigliosi li odiasse, e odiasse anche te, piccolo bambino entusiasta che sperperavi mille lire per finire Cabal.

Nella sua sala giochi ho vissuto molte esperienze formative. Una volta mi hanno rubato lo Swatch Scuba, che avevo furbescamente appoggiato sulla leva del player 2 per poter giocare meglio a Hippodrome. Erano anni gli anni in cui l'AIDS ti faceva venire l'alone viola intorno e chi ti drogava ti spegneva. "Stai attento, Fabiulin', che lì l'è pien di balordi," mi diceva mio nonno. I balordi c'erano, così come la cappa eterna di fumo e un sacco di cose losche che ai tempi non avevo ancora gli strumenti per capire. C'era il disagio, quello vero, non quello che va di moda millantare sui social odierni, ma c'era anche l'agio borghese, quello di bambini e ragazzini che non avevano un problema al mondo. I videogiochi ci univano, anche se solo per la durata di una partita.

A trent'anni di distanza, se chiudo gli occhi vedo ancora la disposizione dei cabinati della sala giochi di Dante. In fondo a sinistra c'era Windjammers, vicino a Super Pang e Gals Panic, che aveva sempre intorno un capannello di preadolescenti allupati all'idea di un capezzolo in bassa risoluzione. Dall'altro lato c'era il cab a quattro delle tartarughe ninja, accanto a Sunset Riders e Snow Bros. C'era un cab generico con dentro Asterix di Konami, al quale giocava sempre un ragazzo grande, rimasto bambino nella testa per qualche incidente non meglio precisato, che rideva a crepapelle ogni volta che partiva il sample "Obeliiiiiiix".

Avvicinandosi all'uscita, si arrivava alla zona che sapeva di vintage anche ai tempi, con Tetris, Bubble Bobble (che era in realtà quel bootleggone di Bobble Bobble, perennemente in super mode), Wonder Boy, 1942. Accanto al banco del signor Dante, invece, c'erano i cabinati più nuovi e preziosi, come NBA Jam e qualche tempo dopo Mortal Kombat, che costava due gettoni a partita e sembrava uscito dal futuro.

Il signor Dante è sparito insieme alle sale giochi. Ho smesso di vederlo parcheggiare l'Ape nel suo garage più o meno quando nei bar sono spuntati i videopoker. Oggi, al posto della sala giochi, c'è un negozietto squallido di costumi da bagno e infradito. A volte mi chiedo se dietro quella faccia di cartone, bruciata dal sole della Liguria, si nascondesse un po' di amore per i videogiochi. Altre penso che avrebbe preferito vendere infradito. Eppure, ogni volta che uso la chiavetta magica per aprire il mio cabinato, quello che ho comprato a trenta e passa anni nella mia crisi di mezza età in chiave geek, penso al signor Dante, alla sua sala giochi fumosa, a mio nonno, alle duecento lire, ai miei anni Ottanta.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo