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The House of the Dead 2: Il pacchiano nostalgico | Racconti dall'ospizio

The House of the Dead 2: Il pacchiano nostalgico | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Vorrei aprire l’articolo con un ricordo che mi porto dentro da quasi vent’anni. Anno domini 2001. Un piccolissimo me di appena sette anni amava trascorrere i caldi (ma anche i freddi) pomeriggi della sua anonima cittadina abruzzese, in uno di quei ritrovi – oggi praticamente ridotti a luoghi revival – colmi di arcade e stenti precari di un proprietario sempre più povero. Lì dentro, fra la quindicina di cabinati disponibili, ce n’era uno che faticava a essere sostituito, forse per la sua velocità e per il suo dinamismo; o forse perché era diventato il più economico. Fatto sta che su quel cabinato era installato proprio lui, a mio avviso lo shooter su binari più bello e pacchiano di sempre: The House of the Dead 2.

Uscito in sala giochi nel novembre del 1998, lo shooter firmato SEGA godeva di una buona credibilità, ereditata dal successo di pubblico e critica del suo predecessore. Quando – avvicinando al cabinato uno sgabello alto quanto me – cominciai a giocarci, il celebre sparatutto era già vecchio; le sale giochi di provincia faticavano ad arrivare a fine mese, figuriamoci a stare al passo con le uscite. Ciononostante, i memorabilia presenti in quei 100 metri quadri erano e resteranno per sempre la mia prima vera formazione videoludica.

Questo secondo capitolo si differenziava dal predecessore per numerosi aspetti, di cui il primo era senza dubbio l’ambientazione: di fatto, il gioco si apriva con i nostri due agenti AMS, James Taylor e Gary Stewart, che, armati di un look e di un aplomb molto GoldenEye, arrivavano a bordo di una Aston Martin (?) in una Venezia molto poco Venezia (una Venezia in salsa Giapponese). Le strade e gli antichi edifici della laguna costituivano il nostro palinsesto ed era proprio fra quelle meravigliose architetture che dovevamo farci strada.

Il crescendo dell’azione è l’aspetto più nostalgico del gioco; dai più primitivi e basilari zombie degli stage d’aperitivo, passando per sanguisughe, rospi, pipistrelli, piranha, zombi con asce e motoseghe, zombi palustri e gli immancabili boss di fine capitolo. Questi non solo esemplificavano un aspetto tipico della grammatica videoludica orientale ma rappresentavano anche l’elemento più travolgente, impattante e stilisticamente migliore: tutti i boss erano contraddistinti da caratteristiche proprie, come punti deboli e pattern d’attacco, ma soprattutto erano figli di un concept design meravigliosamente anni Novanta. Spero vi ricordiate del primo boss, Judgment, il colossale automa in corazza medievale senza testa. Se sì, vi ricorderete anche del piccolo imp che lo accompagnava, Zeal. Bene, per arrecare danno al golem, bisognava colpire nientemeno che un fugace Zeal, che seguendo un pattern ben preciso, svolazzava a destra e a manca. Oppure Strength, il colossale zombie motosega munito, che ci insegue in quello che di fatto è un Colosseo (japanese, what else). Lo stile grossolano di quel decennio permea ogni singolo frame, dipingendo un quadro stilistico godibilissimo persino oggi (rigiocato un’oretta fa).

Il gameplay. Cosa c’è, da dire, sul gameplay di The House of the Dead 2? Innanzitutto, come diceva George Clooney, “no light gun, no party”, e rigiocandoci con il solo ausilio del mouse l’ho capito a mio malgrado. A rendere la transizione più indigesta, ci ha pensato la mia memoria muscolare; e no, non vi sto prendendo per il culo. A distanza di decenni, quel banale – ma scenico – movimento basculante che permetteva di ricaricare l’arma è tornato come se avessi giocato in sala giochi fino a ieri. Una lacrimuccia è scesa, metaforicamente parlando. Al di là di questo aspetto “meccanico”, il gameplay era elementare persino per il 1998. Mossi su dei tradizionali binari, avevamo la possibilità, ma a volte anche la necessità, di salvare dei personaggi spesso affetti da palese ritardo; salvandoli, avremmo incrementato il nostro score finale, permettendoci di accedere a delle ricompense casuali che spesso si traducevano in vita extra. Inoltre, sparsi nell’ambiente, era possibile sparare a degli oggetti distruttibili, perlopiù casse o barili, nella speranza di incappare in alcuni item, come diamanti, rane o funghi. Tutto questo nel tentativo di sconfiggere le mostruosità del perfido Caleb Morgan, nonché il riccastro che aveva finanziato gli esperimenti del dottor Roy Curien in The House of the Dead. Inoltre, quelle cutscene fra uno stage e l’altro, in cui vediamo un assorto Caleb Morgan, non so per quale ragione, mi fanno pisciare sotto tutt’oggi.

Ma a prescindere da tutto questo, perché The House of the Dead 2 piace ancora? Certo, il vaglia del tempo non l’ha superato con tutti gli onori, ma è assolutamente affascinante osservare con quanta follia veniva concepito e quindi scritto un videogioco simile. Mi spiego meglio. Il concept dietro al gioco è quanto di più caotico, weird, e nonsense esista: zombi dal sangue verde, piranha nella laguna veneziana, zombi in mimetica che somigliano a Jack di Tekken che guidano delle cabrio con volante a destra, per non parlare di quei zombi in maglia di cotta e armati di spadone; insomma, il caos a 32 bit. Una commistione di stilemi senza apparente senso ma che non danneggiano in alcun modo un’esperienza che, senza troppe iperboli, fa parte del bagaglio formativo di un giocatore su tre. Mica cazzi. È questo insieme di follie, forse mai prese sul serio, a rendere il gioco unico. Ce ne sbattiamo altamente del protagonista, che forse è la cosa più anonima dell’intera avventura; bensì sono loro, i mostri, a tracciare quella linea indelebile intrisa di nostalgia. Dal canto mio, prima ancora di rigiocarci, ricordavo a memoria tutte le specie e le varianti di mostri. Ricordavo chiaramente tutti i boss e i relativi pattern di mosse. Ricordavo perfettamente anche quella fastidiosa e sintetizzata vocina del cazzo di Zeal; al contrario, non ricordavo nulla del protagonista, se non che fosse vestito in smoking grigio. Volendo tirare le somme, è proprio l’intera componente weird ad alimentare il franchise; una componente apparentemente priva di caratura intellettuale ma che denota ugualmente una grande attenzione da parte dei suoi sviluppatori, nei confronti di quell’immaginario pop di cui, almeno in quel periodo, si drogavano tutti. I concept sono poco chiari? Cos’è, un fantasy in tinte horror sulla falsariga de L’armata delle tenebre? O un horror più tecnologico in pieno stile Resident Evil? La risposta è banale e ovvia: entrambi.

Ah, che poi il cabinato su cui giocavo era talmente consumato che, se si premeva troppo forte il tasto di avvio, un malfunzionamento generava un bug nella voce che intonava The House of the Dead. In pratica, entrava in loop per cinque secondi: The Hou – The Hou – The Hou – The Hou.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Febbraio bizarro”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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