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Naughty Dog e la forma definitiva dell’Indiana Jones-like

Naughty Dog e la forma definitiva dell’Indiana Jones-like

Pensateci un attimo: in Naughty Dog ce l’hanno sempre avuto il pallino di Indiana Jones. Basta ricordarsi la citazione esplicita in uno dei primi livelli di Crash Bandicoot, con quel masso rotolante che insegue il marsupiale, la telecamera puntata sulla sua faccia ebete e la nostra corsa disperata, quasi alla cieca; un virtuosismo di level design nato da una delle scene più iconiche del cinema. Penso che ancora oggi quella sia proprio la mia immagine preferita del loro esordio su PlayStation, dopo gli anni di Apple e Mega Drive. Una fascinazione che in questa serie è comunque più ampia e tira dentro soprattutto le ambientazioni, con templi in stile azteco, egizio e orientale pieni di trappole, meccanismi, reliquie e tesori, quasi che questi livelli, in mezzo ad altri ben più assurdi e variegati, fossero quasi dei cortometraggi parodistici e interattivi dei capolavori di Lucas e Spielberg.

“Indiana è il nome del marsupiale”

Chiaro, quello di ispirarsi a Indy è un leit motiv che il platform ha adottato dai tempi di Pitfall (1982), uscito un anno dopo I Predatori dell’Arca Perduta, ma a memoria fu proprio il ’96 a segnare questo revival videoludico, con Crash e il ben più esplicito Tomb Raider di Eidos: Lara Croft buca lo schermo, trascende il videogioco e si prende in un colpo lo scettro di avventuriera pop e, soprattutto, l’immagine di icona culturale a tutto tondo. Mi piace pensare che in quel momento inizi un lento processo di contaminazione, con i dipendenti di Naughty Dog che, nelle pause, si mettono a giocare a Tomb Raider, ogni anno un nuovo capitolo, usciti sempre a braccetto dei seguiti di Crash (’97 e ’98), rimuginando su quello che vorranno creare in futuro. “Maledetti inglesi, ma come ci sono riusciti?”. Gli inglesi sembrano effettivamente un passo avanti in quegli anni, la loro serie è moderna, innovativa, il target di pubblico decisamente più maturo e Lara non è una mascotte, è uno dei simboli più riconoscibili degli anni Novanta, l’Harrison Ford del nuovo decennio, e non è neppure una persona vera!

OK l’estetica, lo status di sex symbol virtuale, ma il level design della serie Eidos era di un altro livello all’epoca.

Nuova generazione, nuova serie, si ricomincia; è il 2001 è PlayStation 2 è pronta ad accogliere il suo primo grande platform 3D. Jak and Daxter: The Precursor Legacy è un’avventura molto più organica, che strizza l’occhio al modo di fare di Nintendo, colorata, comedy, fantasy, con un’estetica unica ma con suggestioni più tombraideriane, proponendo un platform meno astratto di quello che era la norma, condito con puzzle ambientali e dimostrando, in generale, un’indole più esplorativa che arcade. È un po’ la versione ad ampio respiro di quei livelli di Crash, liberamente esplorabili, ariosi, adattando di conseguenza la narrativa al nuovo design. Non che sia una roba da Oscar, per carità, ma Naughty Dog riesce a creare una mitologia affascinante, che affonda le radici nel passato di quel mondo, costruendo le fondamenta per una serie che, negli anni successivi, raggiungerà livelli probabilmente inattesi, iniziando a cementare quell’autorevolezza, quel sigillo di qualità, che il team californiano raggiungerà nel giro di un decennio. Due anni dopo, Grand Theft Auto III era già diventato la “big thing” di quella generazione, l’open world era diventato il presente del mercato mainstream e i cagnacci di Sony decisero di evolvere la loro serie per seguire il trend, cambiando totalmente impostazione di gioco, estetica, vibes.

Personalmente ho proprio un debole per il primo Jak and Daxter, uno dei miei platform 3D preferiti, anche perché, ai tempi, nessuna console Nintendo era collegata al CRT di casa.

Jak 2: Renegade prende la scusa del salto temporale per portare la coppia in un mondo plumbeo, in guerra, dove la centrale Haven City è più una discarica a cielo aperto che la metropoli paradisiaca e avveniristica che ci si aspetterebbe. Un mood molto anni Novanta, quel cyberpunk decadente di seconda generazione. Il gioco introduce meccaniche shooter e la guida di vari mezzi antigravitazionali (da rubare per strada, ovviamente), per esplorare e scappare dalle milizie che controllano la città, prendendo in prestito elementi chiave da Rockstar per arricchire la propria opera, che però non smette di puntare su platforming, puzzle ambientali e senso di scoperta, con quell’accento sugli artefatti antichi sempre affascinante, dando un’interpretazione quasi zeldiana al fenomeno del momento. Secondo me è sempre stato abbastanza sottovalutato, vuoi perché molti giocatori volevano che la serie continuasse ad essere un po’ la risposta di Sony a Super Mario, magari per l’atmosfera eccessivamente puzzolente e opprimente, ma rimane un gran bel gioco, con la serie che culminerà poi in Jak 3, un anno dopo, nel 2004. Ritornano i colori (non tantissimi ma tornano), tutto viene espanso, migliorato, esaltato, però non è che me lo ricordo benissimo, quindi glisso in maniera un po’ paracula, cito Jak X, spin-off racing di qualità ma decisamente non fortunato come Crash Team Racing, e vado avanti. Anche perché il team torna subito al lavoro, per arrivare alla naturale conseguenza di un percorso che porta sempre lì, a quell’ispirazione, quasi un’ossessione, come l’Arca dell’Alleanza per gli archeologi (e i nazisti).

Jak 2 va riscoperto, anche perché è un tassello fondamentale del videogioco single player moderno.

Naughty Dog esce dalla generazione PS2 coi gradi più alti tra tutti i first party Sony e PlayStation 3 ha un bisogno fisiologico di killer application. Anche perché la concorrenza l’ha già trovata; Microsoft, 360, Gears of War. Tre parole sinonimo di next gen, ad un prezzo decisamente più modico, oltretutto. Nel frattempo Tomb Raider, tra episodi qualitativamente altalenanti e un declino fisiologico di popolarità, lascia vacante il posto che Naughty Dog non aspettava altro che riempire col loro progetto più ambizioso: Uncharted. La scelta è rischiosa però; insomma, l’avventura alla Indiana Jones non era proprio la cosa più di moda in quel primo decennio del 2000. Bisognava farlo in modo moderno, accattivante, cercando di centrare una doppia impresa, quella di rianimare quel tipo di immaginario, l’avventura archeologica, e quella di cui sopra, dare un videogioco identitario a una console che faticava a ingranare. Il modo in cui il team decide di entrare in scena, diretto per la prima volta da Amy Hennig, dopo l’uscita di scena dello storico co-fondatore Jason Rubin, è esplosivo, tutt’altro che timido: come il suo protagonista, Nathan Drake, classico belloccio anni 2000 ma con la lingua tagliente e la battuta sempre pronta, come un eroe d’azione anni Novanta, più un Bruce Willis che un Harrison Ford. L’intesa che si crea con le due spalle, Helena Fisher e Victor Sullivan, trascina una narrazione che di suo sarebbe abbastanza canonica, con avventurieri, tesori, isole caraibiche, mercenari e misteri sovrannaturali, e contribuisce ad esaltare un gameplay più ispirato all’A-Team che a Indiana Jones. Si spara un sacco da dietro i ripari (d’altronde Epic aveva stabilito uno standard per i TPS che non si poteva ignorare), si ammazzano una quantità industriale di comparse e lo si fa in un contesto curatissimo dal punto di vista scenografico, dove il paragone col cinema non è certo campato per aria, anzi, è un obiettivo dichiarato. L’atmosfera che si viene a creare è il vero punto di forza dell’opera, avvolti dalla giungla, immersi nelle rovine, il mare sullo sfondo e un sacco di sparatorie ignoranti a corredo. La formula perfetta.

Uncharted riesce ad essere una risposta concreta e alternativa allo spara-muretto di Epic, non certo una copia.

L’alternanza shooting-puzzle-platform-sezioni a bordo di veicoli (deliziosamente ispirate a quelle di Crash Bandicoot) è matematica, forse anche prevedibile dopo la metà dell’avventura, ma divertente, con una regia dalla qualità inedita per il settore, supportata da una tecnica di altissimo livello, soprattutto per tutto ciò che riguarda gli attori virtuali. Uncharted non è perfetto ma è un successo, e la trilogia viene da sé. Un seguito come Uncharted 2, però, in pochi se lo sarebbero aspettato. A Naughty Dog bastano due anni di lavoro per alzare il livello in maniera clamorosa. Il secondo capitolo è più snello, tende a ripetersi meno, il ritmo è incalzante, è costantemente sorprendente e propone delle singole sequenze diventare istantaneamente iconiche, come il vagone del treno sospeso in un burrone, da scalare alla disperata. Che roba, ancora oggi! Le idee di design di Neil Druckman, precedentemente impegnato nella scrittura, sono esattamente quello che mancava al primo capitolo. Da una natura action platform, comunque ancora fisiologicamente legata alla generazione precedente, si passa ad un’avventura dinamica di nuova concezione, l’Another World di settima generazione, dove tutto succede in presa diretta, in maniera fluida, scriptata, facendo propri i virtuosismi ludo-narrativi di Modern Warfare per adattarli alla propria struttura, un po’ come GTA per Jak 2. L’esperienza è travolgente, il racconto è più intenso, scritto come un blockbuster perché l’impostazione stessa del gioco è più da film che da videogioco. Il risultato, insomma, è spettacolare, per quanto mi riguarda il miglior gioco PS3, forse anche sopra al terzo capitolo, magnifico ma tutto sommato meno sorprendente e più conservativo, anche giustamente, visto che contemporaneamente si stava sviluppando un certo The Last of Us, che però lascio da parte.

La tormenta, il pericolo, la sensazione di urgenza, il platforming guidato per essere iper-fluido, la telecamera che ruota attorno alla scena… Ed è il primo impatto che il giocatore ha con Uncharted 2!

Il successo di questa trilogia ha condizionato tutto il settore (soprattutto i PlayStation Studios, basti pensare al cambio totale di impostazione di God of War nel 2018), hanno spinto Crystal Dynamics a ripensare Tomb Raider e a riportarlo in auge e, non a caso, entrambe le serie sono poi tornate/arrivate sul grande schermo con due film comunque dignitosi, interpretati da attori di altissimo livello. Naughty Dog, in quella generazione, ha stabilito un nuovo livello per la recitazione virtuale, per la regia, per la qualità stratosferica degli asset permessa da valori produttivi unici, per l’action come genere trasversale, riuscendo a dare un erede di spessore assoluto a Indiana Jones, in un altro media ma ugualmente influente. Probabilmente è un’esagerazione, ma se Il Quadrante del Destino sta per uscire nelle sale è anche un po’ merito di chi l’avventura archeologica l’ha fatta conoscere alle nuove generazioni, rivitalizzandola. Qua ci sarebbe poi da parlare di quanto Uncharted 4 sia una conclusione di una maturità e di una consapevolezza straordinaria per l’arco narrativo di Nathan Drake, oltre che un gioco tout court di una piacevolezza totale, e di come la lunghissima sequenza finale de L’Eredità Perduta sia, a mio parere, la “cosa” action più bella, esaltante e mozzafiato uscita da Mad Max: Fury Road a oggi, ma rischierei solo di ripetere concetti già scritti.

L’immagine di Crash Bandicoot inseguito da quel masso e quella di Nathan ed Helena che giocano con la propria bimba sulla spiaggia sono due istantanee che raccontano, perfettamente, il percorso della software house più influente degli ultimi trent’anni, capace di lavorare sui propri concept, capitolo dopo capitolo fino a raggiungere le estreme conseguenze di design, darsi obiettivi e raggiungerli con una qualità ineguagliabile, contribuendo a portare il videogioco tutto alla maturità che stiamo vivendo ora.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Indiana Jones, che trovate riassunta a questo indirizzo.

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