Outcazzari

Outcast GOTY 2022

Outcast GOTY 2022

Ce l’abbiamo fatta! Anche quest’anno concludiamo la rassegna di OTY e, dopo avervi segnalato lle nostre serie TV preferite del 2022, dopo avervi indicato anche i nostri film più bellissimi del 2022, tocca inevitabilmente ai videogiochi.

Buona lettura e buon 2023!

Stefano Talarico

Vampire Survivors è il mio gioco dell’anno, perché mi ha ricordato una volta di più quanto tutti i videogiochi siano una figata e, OK, sì, la super trama, i valori produttivi fuori scala, le emozioni forti sono sempre bellissime (la quantità di ore che quest’anno ho passato su Death Stranding prima e la Director’s Cut poi mi ha stupito), ma alla fine gli arcadoni tutti dopamina e croccantezza sono sempre una droga imbattibile: semplicità e immediatezza rendono Vampire Survivors perfetto, tanto per partite da mezz’ora quanto per infogni da interi pomeriggi. Per non parlare del fatto che, nella sua asciuttezza totale, si tratta di un gioco scritto con un gusto parodico raro, costantemente in bilico tra l’omaggio per Castlevania e soci e tutti i sottoprodotti della TV anni Novanta/Duemila. Infine, a livello tecnico e produttivo, è obiettivamente il sogno bagnato di tutti gli studi di sviluppo: tirato su da pochissime persone, con scelte “al risparmio” così evidenti da essere perfettamente contestualizzate, anche qui, come omaggio ai giochi di un tempo (dove gli sprite dei nemici venivano “sbloccati” per essere usati dal giocatore come nuovo personaggio), Vampire Survivors è arrivato sulla bocca di tutti, tanto da far chiedere a molti non italiani cosa fosse La Borra. Strepitoso.

Davide Moretto

Il 2022, nonostante le diverse piattaforme fisiche e in streaming che ho avuto sottomano, non mi ha visto giocare molto, anzi sono stato davanti a console e PC veramente pochissimo rispetto al passato. Ho giochicchiato ad Elden Ring e God of War: Ragnarock è arrivato troppo tardi (e comunque non sarà mai il gioco dell'anno, per me), quindi do il mio GOTY 2022 ad Immortality. Non è un gioco per me e quando l'ho iniziato non capivo cosa dovessi fare, ma pian piano mi ha preso e sto ancora tentando di risolvere l'enigma di cosa sia accaduto a Marissa Marcel. 

Andrea Peduzzi

Vabbè, che relax, a questo giro non ho il minimo dubbio: il mio gioco dell’anno è nettamente Elden Ring, e per distacco, nonostante nel corso del 2022 abbia speso parecchio tempo più del solito davanti alle console. Eppure, nessuno ce la fa contro la bomba di From Software, nemmeno quel manico di Sam Barlow, ed è assolutamente probabile che ne sentiremo parlare pure tra qualche anno, quando ci sarà da disputare le meglio cose dei ruggenti Venti (ovviamente a patto di essere ancora vivi e non stroncati da qualche pandemia/invasione aliena/guerra nucleare imbastita da Vlad Putin o, semplicemente, dalla vecchiaia). Minchiate a parte, le ragioni della mia scelta sono semplici: oltre alle eccellenti meccaniche, ai giri di design, alle atmosfere e ai boss, Elden Ring è riuscito a fornirmi una di quelle narrazioni interattive che capitano una volta ogni, boh, dieci anni, spingendomi ad esplorare ogni centimetro dell’Interregno alla ricerca di questo o quell’altro nesso per completare la mia comprensione dei fatti, e a passare decine di ore su forum, canali YT e compagnia acconcia. Per settimane ho fatto regolarmente le cinque del mattino davanti a PS5 esplorando, combattendo e prendendo un sacco - ma veramente un sacco - di mazzate, ciascuna delle quali tuttavia è servita a migliorarmi, se non come persona, almeno come videogiocatore.

Alessandro De Luca

Sarò scontato ma il mio gioco dell’anno può essere solo uno: Elden Ring. Ne abbiamo parlato e scritto tutti in abbondanza ovunque e a ogni occasione possibile. Per certi versi, per me è stato il Fury Road dei videogiochi del 2022. Ha monopolizzato la mia attenzione per settimane e nonostante abbia giocato a molto altro quest’anno e abbia trovato altri titoli davvero notevoli (Immortality su tutti), Elden Ring è stato un’esperienza così totale e coinvolgente che non è soltanto il gioco più bello di quest’anno, ma uno dei giochi più belli in assoluto a cui abbia mai giocato. FromSoftware è riuscita a prendere tutto quello che ha imparato in questi anni dai suoi souls e l’ha innestato in un impianto di gioco open world. Io per primo temevo che questo cambiamento drastico di impostazione si sarebbe rivelato non adatto al genere, e invece sono stato piacevolmente sorpreso dall’immensità, sia letterale che metaforica, di quello che Elden Ring ha da offrire. Un gioco ricchissimo di contenuti, tutti di altissima qualità e con un’enorme libertà sul come e quando affrontarli, aspetto che rende Elden Ring il souls più “personalizzabile” come esperienza e, se vogliamo, anche più facile, come risultato indiretto di tutta questa libertà di scelta. Un gioco epico e incredibile, che sono sicuro influenzerà il mondo dei videogiochi per anni a venire.

Marco Esposto

Teenage Mutant Ninja Turtles: The Cowabunga Collection. Oh, a God of War: Ragnarock giocherò quest'anno, su Elden Ring ho una run molto basilare che approfondirò sempre quest'anno, gira che ti rigira, tra i quarantacinque giochi giocati (se non mente il mio resoconto), quello che più mi ha fatto ogni volta tornare il sorriso quando lo lanciavo sulla mia PlayStation 5 (potenza next-gen, proprio) è la raccolta delle Turtles di Konami. Una cura maniacale nella riproposizione dei giochi classici sulle Tartarughe Ninja, che sono pure tanti e tutti accompagnati da una mole di extra veramente incredibile, una enciclopedia che ha lasciato a bocca aperta un po' tutti quelli che hanno messo mano alla collection e che oltre ai videogame spazia anche in tutti gli altri media riguardanti le tartarughe mutanti (c'è la lista di tutti gli episodi di tutte le serie animate con tanto di immagini chiave per ogni puntata, follia pura). Quindi cowabunga, e ciao.

Andrea Maderna

Pentiment è un (bellissimo) CRPG senza le complicazioni di un CRPG. Nel bene e nel male. Gioco dell'anno? Gioco dell'anno.

Stefano F. Brocchieri

La roba che mi ha sverniciato di più nel 2022 è Elden Ring. Che originalità, vero? E allora facciamo che ripiego altrove, arzigogolando come una biscia cocainomane e dilungandomi oltre ogni decenza, che ormai dovreste sapere come sono fatto.

Lo so che a questo punto vi aspettate che vi parli di God of War: Ragnarök, seguito di un reboot che mi è piaciuto molto. Ma non avendo più una piattaforma PlayStation non ci ho giocato. Però l’ho comunque comprato, facendo contento qualcuno, come da contributo video qua sotto, e questo basterebbe per farne il mio GOTYssimo. In realtà ne ho pure approfittato per spararmici un’oretta abbondante, che mi è piaciuta molto e ha cementificato la mia intenzione di recuperarlo (quando mi farò una PS5? Quando arriverà su PC? Quando Sony metterà finalmente a punto un servizio streaming a decenza?), anche se mi preoccupano le voci riguardanti una sua “marvelizzazione” (proprò: andatevene affanculo voi e quanto cazzo l’avete resa rilevante nel corso degli anni).

Il 2022 lo vorrò sicuramente ricordare per Cuphead: The Delicious Course, DLC del capolavoro di MR Studio (di cui vi ho parlato qui) che si è rivelato assolutamente all’altezza, sapendo rilanciare in termini di stile, gameplay e inventiva (vi prego, fatemi un gioco intero con le Sfida del Re!).

E a proposito di capolavori indie, non posso non citare Hyper Demon, dagli autori di quella perla nerissima di Devil Daggers, di cui costituisce in qualche modo un seguito. Non voglio fare l’ipocrita, perché ci ho giocato un decimo del predecessore e non so se alla lunga valga quanto uno dei migliori FPS degli ultimi vent’anni, che per 7,99 euro ti offre tante di quelle dinamiche sopraffine e una forza espressiva che manco in dieci sparatutto tripla A considerati di categoria medio-alta dall’uomo di Metacritic. Però un titolo che ribadisce una perspicacia e un manico da primi della classe e ha l’audacia di rilanciare ulteriormente in termini di follia, mettendo anche in discussione svariati paradigmi della sua base di partenza merita solo grandi pacche sulle spalle e due corna sataniche di stima fatte con la manina.

Che faccio, non allungo parlando di Prodeus? Trovo importante citarlo, primo, perché è bellone, sebbene con problemi seri nel combat e, secondo, perché costituisce un tipico caso in cui rivedo un mio pregiudizio. E a me piace quando succede. Sì, perché l’avevo provato in early access e non mi aveva detto granché, trovandolo tra i boomer shooter più sopravvalutati, ma quando ne ho sentito parlare un po’ ovunque, complice la sua inclusione nel Game Pass, ho deciso di dargli una nuova chance, divorandomelo.

Pregiudizi confermati misti a saudade, invece, per Dying Light 2: Stay Human. Ho adorato e PRrato alla morte il primo episodio, eppure non avevo alcun interesse per il seguito, per via della direzione che avevano dichiarato di voler prendere (più umani meno zombi? Ammazzatevi) e per le tribolazioni che hanno avvelenato lo sviluppo. Ma a un certo punto ho deciso di prenderlo sotto la mia ascella protettrice. È successo nell’esatto momento in cui, a ridosso del lancio, la macchina del marketing ha cominciato a muoversi e tra le varie twittate è uscita quella che, un po’ ingenuamente, esaltava la durata del gioco. E l’ho vista bullizzare da sedicenti critici, professionisti del clickbait e varia altra gentaglia che con ogni probabilità non rientra nel target di quella comunicazione e quasi sicuramente è anche un branco di senza-mani. E non ci sono voluto stare. Detto ciò, il gioco ha pure le sue belle qualità, ma mi ha consegnato una Techland che, ahimé, devo ascrivere nell’amara lista di team di cui non mi posso più fidare, perché ha cappellato, anche platealmente, aspetti su cui andava fortissimo e pensavo di poter dormire tra quattro guanciali. Parlo dell’open world (di una fintezza e modularità AGGHIACCIANTI), moltissimo del mission design (anche qui fintezza a go-go), le notti e il combattimento con gli zombi e le loro routine. Aspetti, questi ultimi due, che a mesi e patch di distanza continuano a fare schifo al cazzo. E il fatto che su Steam un gioco vecchio di otto anni come Dying Light abbia molti più giocatori di uno uscito da soli dieci mesi e ancora sulla cresta dell’onda del supporto come Dying Light 2 la dice lunga su quanto le delusioni abbiano le gambe corte.

Altro titolo che non aspettavo particolarmente ma di cui ho deciso di interessarmi nei pressi dell’uscita è Call of Duty: Modern Warfare 2, che in singolo sembra CoD fatto da quegli incompetenti di DICE, e a cui quindi darei un 3, solo che infila un paio di missioni che DICE non sarebbe mai in grado di realizzare, e quindi si merita un mio 4.5. È andata molto meglio invece con il MP. So che è piuttosto discusso tra gli appassionati più hardcore, ma non sono più molto sul pezzo e a me per una cinquantina di ore abbondanti ha divertito parecchio, nonostante i problemi che anche uno non molto più sul pezzo come me gli riconosceva, sul campo.

Un po’ all’incrocio delle ultime istanze The Callisto Protocol. Per le twittate che han fatto discutere (Schofield, ci siamo pure conosciuti in persona e mi stai anche simpatico, ma con la roba del crunch ti sei dimostrato un boomer fuori dal tempo e gli scappellotti te li sei meritati tutti), perché non era un titolo che aspettavo particolarmente, per il fatto che non ti puoi fidare di chi pensavi masticasse al bacio un certo modo di fare videogioco (e non perché volevo un nuovo Dead Space, anzi, il fatto che il gioco cerchi una sua strada è solo da ammirare) e perché è robaccia a cui darei una sonora insufficienza, sebbene per diversi tratti abbia saputo divertirmi, a suo modo.

Il mio è stato anche un anno di retrograming. Fermi lì, lo sapete che non sono tipo da andarsi a ripescare la roba di quand’era bambino, ottantamila anni fa, per cui il termine è relativo. Complice l’esser stato a casa in isolamento per quasi tre settimane e non trovare niente di nuovo che mi stimolasse, mi sono rigiocato un po’ di roba. Come la trilogia recente di Wolfenstein. In un mercato in cui gira tantissima roba senz’anima è bello riassaporare il fatto che The New Order sia non solo una produzione con un cuore, ma anche con un cuore grande COSÍ. Che The Old Blood sia quello dalla giocabilità più solida e un’inventiva e una cazzimma non da meno, e se non siete d’accordo è perché non avete giocato a Return to Castle Wolfenstein e non siete in grado di apprezzare quanto sappia omaggiarlo, decostruirlo, trollarlo. E che The New Colossus... nulla, non ho granché di nuovo da dire rispetto alla video-whatever-recensione che ho realizzato per queste pagine.

A un certo punto mi sono anche rigiocato Mirror’s Edge, sparandomelo in un’unica sessione. È sempre amore, è sempre amarezza per la direzione presa dal seguito (DICE, mettiti il cuore in pace, l’I.A. e le collisioni non le sai fare. Dovevi togliere in toto in combattimenti, non metterne di più) e son sempre brividi di orrore per l’interpretazione di Asia Argento, ma c’è un twist: mi è successo un fatto tra i più emozionanti e mindblowing da quando videogioco. Giuro. In sostanza, pensavo che i server fossero stati dismessi e invece accedendo alle Sfide a Tempo non solo ho ritrovato i sudatissimi punteggi che feci all’epoca ma c’era pure il mio ghost. Ritrovarmi a inseguire il me stesso (virtuale) di quattordici anni fa, che pensavo essere ormai sparito senza lasciare traccia, è stato un tuffo al cuore incredibile, sebbene con un certo retrogusto di Black Mirror. Nello stesso periodo mi sono recuperato Dead Space 3. Non ci avevo ancora giocato, perché per me semplicemente non esisteva. E non per le voci riguardanti la coop, i combattimenti con gli umani, le microtansazioni e varie altre questioni di lesa fanboyità, ma perché pur avendo giocato, finito e pasticciato Dead Space 2 su Xbox 360 per recensirlo e pur avendo fatto lo stesso per recensirlo su PC, sentivo che il gioco aveva ancora molto da darmi, che avrei avuto piacere di rigiocarlo, sperimentando nuovi approcci, e quindi non avevo il minimo appetito per un nuovo capitolo. E così è stato, qualche anno fa mi son risparato Dead Space 2, trovandolo peraltro invecchiato pochissimo. Nel 2022 è stato il turno del terzo e, caspita, se mi è piaciuto un sacco. Perde sicuramente qualcosa in termini di stile e capacità di sfruttare registicamente il medium, ma per tanti aspetti lo si può considerare il Dead Space definitivo. Mica male per un titolo che per me non esisteva.

E il “retrogaming” mi ha accompagnato in bellezza fino alla fine dell’anno, con l’update di nuova generazione di The Witcher 3, su cui sto pasticciando tuttora, e che trovo particolarmente significativo per svariate ragioni. Per un’altra storia di beniamini decaduti, per il livello assurdo di “entitlement” che può raggiungere al giorno d’oggi l’utenza e per quanto il gioco stesso sappia rivelarsi ancora significativo, a sette anni di distanza. Vuoi per le sue qualità (tranquilli, non ne sono una groupie scervellata e ho sempre messo e continuo a metterne alla berlina i difetti), vuoi per la sua rinnovata possanza tecnica (con RTX è una roba micidiale. Anche nelle performance, purtroppo) e vuoi per il semplice fatto che è tornato ad essere discusso, fotografato, moddato ma sopratutto giocato tantissimo (su Steam ha sfiorato il suo record assoluto di giocatori contemporanei, per stabilizzarsi attorno ai 76000, nel momento in cui scrivo). Ma coi seguiti, i remake e i tricche tracche ‘sti polacchi manigoldi senza più arte né parte non mi fotteranno.

O almeno così mi piace pensarla fino ad eventuali auto-smentite in uno dei prossimi Outcast GOTY.

Angelo Di Franco

Per chi, come me, ha speso diverse ore della propria infanzia a guardare la serie animata originale delle Ninja Turtles e a giocare a The Hyperstone Heist, un titolo come Teenage Mutant Ninja Turtles: Shredder's Revenge è assolutamente una manna dal cielo. Il feeling dei vecchi titoli a 16 bit c’è e lo si percepisce dai primi minuti di gioco, ogni aspetto è estremamente curato, dalla grafica coloratissima a una giocabilità semplice e immediata, che rendono Shredder's Revenge fruibile da chiunque e completabile senza troppi sforzi e in poche ore, aspetto fondamentale per chi magari non ha molto tempo da dedicarci. Certo, giocato in singolo perde una buona parte del potenziale e forse qualche personaggio in più fra cui poter scegliere all’inizio non avrebbe certo guastato, ma ciò non toglie che si tratti di un’operazione estremamente riuscita e rispettosa del materiale originale, una di quelle per cui, una volta tanto, la spesa è giustificata. Adesso però voglio l’annuncio del seguito.

Antonio Bellotta

Quest’anno sono stato folgorato sulla via di Damasco da Immortality. Se le precedenti scorribande di Sam Barlow nel mondo dei giochi FMV (quelli tutti a base di filmatini reali girati con attori veri) mi avevano intrigato, emozionato e divertito, Immortality mi ha attaccato allo schermo, ossessionato, distrutto e poi ricostruito pezzo per pezzo. L’ambizione è stata la prima cosa a colpirmi: tre film d’epoca (quasi) completamente girati, ognuno in epoche diverse e con tecniche diverse, tutti realizzati con estrema cura. Poi arriva il resto, quello che si cela fra gli strati di celluloide che sfregano fra gli ingranaggi della macchina di montaggio virtuale alla quale il giocatore siede: arrivano le sorprese, il mistero, il terrore, l’inquietudine e solo molto più tardi la comprensione (o almeno una vaga parvenza di essa) farà fatto capolino fra le centinaia di clip da visionare. Immortality è il mio gioco dell’anno perché è riuscito a scivolare dentro la mia pelle e regalarmi un saliscendi emozionale come pochi libri, film o fumetti erano riusciti prima. Il tutto accompagnato da una riflessione profonda e mai banale su quel che vuol dire creare arte e su quel che lasciamo in questo mondo.

Oh, poi già che son qua, mi permetto qualche “menzione onorevole” sui miei giochi preferiti dell’anno: Elden Ring perché alla fine bastava solo un world design fuori scala a farmi amare un soulslike, Tunic perché quel manuale da ricostruire e decifrare è la meccanica più bella degli ultimi anni, Neon White perché mi ha fatto sentire molto figo a sparare, saltare e usare carte in maniera sempre più veloce e precisa e infine Vampire Survivor perché dà talmente tanta dipendenza che mi ha fatto abbandonare definitivamente la droga.

Vincenzo Aversa

Il mondo dei tripla A non è più la mia strada, questo lo avevo capito anche prima, ma il 2022 ha messo bene in chiaro che dovrei proprio smettere di provarci. La salvezza arriva ancora dagli indie, dagli indie e mezzo, dagli indie gourmet, se vogliamo, perché questo sono io adesso e devo solo farmene una ragione. Sul mio podio metto sicuramente Neon White, pure se i testi era meglio farli scrivere a qualcun altro, e The Case of the Golden Idol, che adoro i giochi investigativi ma è meglio se ci sono gli aiuti da casa, ma il mio GOTY è per forza di cose Sifu. Troppo sorprendentemente pulito, asciutto all’estremo mentre tutti si sforzano di compiacere le classifiche di quantità. Videogioco puro, questo mi serve adesso.

Natale Ciappina

Sono parecchi i motivi, e i perché, che mi hanno portato a reputare Persona 5 Royal non solo il mio gioco dell'anno, ma forse della vita. Provo a metterli in un ordine che non sia sparso, ma non per forza crescente: perché lima i difetti, di fruizione e gameplay, di un gioco che filava liscissimo già dalla sua prima uscita del 2017; perché è uscito su Nintendo Switch, la miglior console possibile per un gioco con combattimenti a turni; perché è stato adattato anche in italiano, dettaglio importante anche per chi è pratico con l'inglese, visto che passare centoventi ore a leggere i cosiddetti 'muri di testo' in una lingua che non è la propria risulta ostico, o almeno lo è per me; perché aggiunge un bimestre scolastico e un finale quantomeno decente a un gioco che aveva nella sua vecchia conclusione il vero punto debole; perché cercavo qualcosa che riuscisse a risollevarmi dal malessere interiore, e quindi perché non provare con le cose che mi appassionavano in adolescenza, dunque Giappone e relativi videogiochi; perché dovevo dare sfogo alla rabbia per un sistema che opprime ambizioni e ideali, distruggendolo anche solo nella fantasia, proprio come i Ladri fantasma; perché ci avevo in parte già giocato e conoscevo dunque i temi e i personaggi che mi sarei trovato davanti, ovvero storie di violenza, solitudine, paranoie e depressione, e che forse mi avrebbero aiutato a lenire i miei dolori -- così è stato; perché il tempo è poco, nella vita reale oltre che nella simulazione di Persona, e va passato facendo ciò che si ama insieme alle persone che portiamo nel cuore: per capire una banalità del genere non mi è bastata una vita intera, ma queste centoventi ore di gioco in più mi hanno aiutato.

Francesco Tanzillo

Non mi capita mai di partecipare a queste cose dei GOTY perché sono un giocatore pigro. Ho bisogno dei miei tempi per giocarmi la roba, tempi che possono dipende da “adesso ho il tempo per” a “adesso lo hanno messo talmente scontato che mi pare stupido non prendere questo gioco a cui volevo giocare da un po’”.

La Serie S e il Game Pass sono stati un grande aiuto per arginare questa cosa, un po’ come lo streaming legale ha migliorato la mia capacità di seguire serie TV nel momento in cui queste escono, fino a cambiare la loro forma in modo tale che queste non diventino tentacolari storie da 8 stagioni ma racconti più compatti, ma sto divagando. O forse no, perché il formato e la possibilità di accesso sono importantissimi, se parliamo di Immortality.

Prima di tutto, l’accessibilità: tutti possono giocare ad Immortality: non richiede nessuna capacità specifica, come schivare al millimetro, o saltare alla perfezione, o avere la pazienza di macinare ore ed ore di gioco sbattendo la testa in faccia sempre allo stesso mostro (anche se “questa volta non è poi così difficile” cit. ma vabe ci siamo capiti). Inoltre è giocabile ovunque, certo, su console con le cuffie è meglio per godere a pieno degli indizi sensoriali che il gioco lascia per sapere su cosa indagare, ma qualcuno con la passione per l’enigmistica e un buon paio di cuffie può giocarci anche tramite Netflix, che sembra una cazzata, ma ci porta direttamente al secondo punto di questa breve riflessione.

Immortality si presenta al giocatore come “il restauro” a partire dai frammenti ritrovati dei film di questa oscura attrice europea misteriosamente scomparsa: in pratica siamo un montatore restauratore con una cassa piena di frammenti di pellicola da mettere in ordine, se non che questa immedesimazione è talmente forte che non vediamo più il gioco, la sensazione che scaturisce è quella di smettere di giocare tanto è forte l’atmosfera e il funzionamento dei trick disseminati tra i vai frammenti e questa roba è, dal punto di vista dell’esperienza, incredibile. Qualsiasi altro miglior gioco dell’anno, per quanto ottimo, non vi farà mai sentire come un dio della guerra o un disgraziato senza anima a spalare mostri nelle terre desolate dove gli alberi spendono. Per quanto abbia adorato anche Pentiment, non ci ho creduto per un secondo, di star leggendo una roba tardomedioevale, per come scritto (molto intelligentemente) e per quello che ti chiede come giocatore, pur piazzandolo al secondo posto di un eventuale podio. Immortality ha la capacità di scavalcare i limiti del videogioco perché supera l’intermediazione dell’avatar. Le cose che succedono non succedono ad un fantoccio digitale ma a noi direttamente in prima persona e questa sensazione è semplicemente impagabile.

Gianni Mancini

Il 2022 è stato un anno davvero generoso a livello videoludico, per me. Sono riuscito a giocare a molti titoli (circa una cinquantina) e, sorpresa sorpresa, mi sono piaciuti quasi tutti, ma solo dieci sono riusciti a farsi strada nel mio cuore indurito da oltre quarant'anni di smanettate. Quindi scegliere il mio GOTY non è stata un’impresa facile. Svelo subito che nella mia lista non troverete God of War: Ragnarok, Elden Ring, Horizon: Forbidden West, perchè mi tengo alla larga dai titoli tripla A e non ne sento davvero la mancanza. Quello che è certo è che il 2022 è stato un anno in cui lo storytelling videoludico indie ha innalzato davvero l’asticella della qualità. Ma stiamo al gioco e vediamo chi è riuscito a fare centro.

A Musical Journey, che non si è filato nessuno (o quasi), mi ha fatto vivere gli psichedelici anni Settanta attraverso un rhythm game che è anche un concept album che è anche una graphic novel. Ho sperimentato anche i paradossi di Patrick’s Parabox, un puzzle game ricorsivo che è a sua volta psichedelia allo stato puro. Poi ci siamo persi con i miei figli nei mondi fantastici e fantasiosi di Lost in Play, avventura punta e clicca dalla grafica e dalle animazioni deliziose. Gerda: A Flame in Winter mi ha calato nei panni di un’infermiera durante la Seconda Guerra Mondiale ed è magistrale come l’uso delle scelte e degli elementi RPG siano riusciti a lasciare impresso il messaggio che in guerra “nulla è giusto o sbagliato”. Ad aprile lo avevo già definito un capolavoro: Norco, con la sua storia southern gothic, mi aveva stregato. Gareth Damian Martin, con Citizen Sleeper, è riuscito, già dopo l’ottimo In Other Waters, a portare a schermo ancora una volta un racconto distopico di prim’ordine fondendolo con leggeri elementi da TTRPG. Pentiment mi ha colpito per come ha mascherato la contemporaneità dietro a un’epoca lontana come il medioevo, per ribadire il fatto che “la storia non insegna nulla”. Immortality, il raffinato esercizio di stile di Sam Barlow, ha esercitato tutto il suo fascino facendomi giocare dentro la mia testa anziché sullo schermo. Cosmo D, con Betrayal at Club Low, ha approfondito e scombussolato ancora di più il surreale universo narrativo (fatto anche di tante pizze stavolta trasformate in dadi) di Off Peak. Ma il mio personalissimo gioco dell’anno è Strange Horticulture. Mi è piaciuta l’atmosfera rilassata, un wholesome game direbbero gli anglofoni, tanto che una delle inutili cose da fare è accarezzare il gatto Hellebore e fargli fare le fusa. Mi è piaciuto l’originale modo di esplorare la mappa, la libertà di poter catalogare le piante, i puzzle logici impegnativi al punto giusto, la dettagliatissima tassonomia della flora di Undermere, la storia dalle tinte gotiche, i finali multipli in base alle nostre azioni e conoscenze botaniche. Un piccolo gioiellino che ricorderò negli anni a venire e a cui magari vorrò tornare per fare un altro giro. Ha fatto centro.

Stefano Calzati

Quest’anno ho amato veramente tantissimi giochi, anche perché a un certo punto sembrava che gli sviluppatori avessero ravanato nella mia testa per trovare delle idee bizzarrissime, tirando fuori un Animal Crossing satanico, una simulazione di rollerblade alla Max Payne, un investigativo FMV che fa Lynch come solo Lynch sa fare e addirittura un golf roguelite a scorrimento orizzontale. Robe da matti! Però, se ne devo scegliere uno su tutti, quello è OlliOlli World, che non solo corona il percorso virtuoso e in costante ascesa di Roll7 ma riscrive il manifesto dello skateboard come sotto-cultura, attualizzandolo, dandogli uno stile nuovo, straripante e acidissimo alla Pendleton Ward, portando al contempo il platform 2D tecnico su un nuovo piano di level design e precisione del control system, un po’ come aveva fatto Celeste qualche anno fa. Un gioco pieno di idee che lascia le chiavi della creatività in mano al giocatore, spinto ad esprimere la propria personalità tanto nella creazione del proprio avatar quanto nel gameplay, nel flow, capace così di essere tanto wholesome quanto infame ed esigente quando lo si vuole padroneggiare, adorabile nella sua narrazione fumatissima e impreziosito nel corso dell’anno da due DLC bellissimi con meccaniche nuove e spettacolari. Da giocare, rigiocare, amare e insultare quando il sovraccarico di trick estremi mette KO l’ennesimo analogico sinistro.

Giuseppe Colaneri

Vado molto fiero del mio excel, denominato "Cose Giocate", in cui anno dopo anno segno tutti i videogame su cui metto le mani durante i mesi. Segno nome, piattaforma, anno di uscita e, ovviamente, un "voto" accompagnato da un piccolo parere. Filtrando l'excel, il premio dovrebbe andare ad Elden Ring, ma sono certo ci siano già manacce outcazzare pronti a tesserne le lodi così come hanno fatto con la loro lingua (ehm..) nei diversi episodi del podcast.

Per questo cito uno dei giochi di cui - fatto salvo eventuale Alzheimer - mi ricorderò di più nei prossimi anni: Xenoblade Chronicles 3. Decisamente il mio capitolo della serie preferito, al contempo diversissimo e "best of" degli scorsi episodi, inequivocabilmente testimone del fatto che Switch non ce la fa quasi più e grida pietà alla stessa Nintendo. Un JRPG lunghissimo ma in grado di prenderti sin dall'inizio con un setting molto intrigante e tenerti per mano in un racconto di un viaggio e di sviluppo di relazioni tra protagonisti che risulta molto più ricco di "pathos" di ogni sovrastruttura di fine del mondo classiche della serie, pur con le sue divagazioni metafisiche tipiche dei vari Xeno (da Gears in poi).

Combat system ottimo, forse un po' troppe meccaniche per i miei gusti, ma una colonna sonora incredibile che fa scivolare via ogni eventuale difetto. Persino la dynamic resolution di Switch, che passa senza soluzione di continuità da "oh ma che belli sti dettagli" a "oh ma che bello sto Dwarf Fortress con caratteri ASCII".

Potevo fare l'hipster e citarvi l'ottimo Card Shark, ma a ‘sto giro vince la tradizione di quel genere al contempo pessimo e fantastico che sono i JRPG.

Copenhagen Cowboy non è la roba di supertizi che (magari) credete

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