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Copenhagen Cowboy non è la roba di supertizi che (magari) credete

Copenhagen Cowboy non è la roba di supertizi che (magari) credete

Voglio credere che nel cinema non esistano regole e sia possibile costruire un’esperienza di intrattenimento anche a partire da inquadrature inusitatamente lunghe e statiche, immergendo poche linee di dialogo in un mare di silenzio. Ha tentato di farlo Refn con la sua serie di supereroi al femminile, perché di questo si tratta. O meglio, di questo si tratta nel Refn-a-verso in cui Copenaghen Cowboy è come la descrive il suo autore nelle intervista: una fantastica ed emozionante esperienza di intrattenimento per le nuove generazioni, che funziona (dal punto di vista commerciale, suppongo).

Chi ha abboccato all’amo è stata Netflix, forse la conoscete, intendo quella piattaforma di video streaming con l’ossessione per le categorie e le etichette, che adesso avrebbe bisogno di una categoria appositamente dedicata a Copenhagen Cowboy con dentro soltanto un titolo. Non so se si capisce, ma sto parlando benissimo di Refn: ho amato il modo in cui si è spostato dal centro della festa, dove si è trovato nel 2011 con Drive, al proverbiale angolino dove si trovano le persone che non vogliono essere notate. Più lui si radicalizza, più io penso che, per fortuna, esiste, data la quantità di prodotti dimenticabili che ci propongono ultimamente.

Copenhagen Cowboy non funziona dal punto di vista commerciale e, qualsiasi cosa voglia dire, non intrattiene. Soprattutto, e per fortuna, non è un film di supereroi. È un ulteriore passo indietro verso la parte meno popolata della festa e io mi domando, a questo punto, se Refn ci sia o ci faccia, se non si rende conto dei rischi che si assume o se preferisce continuare a esplorare dei territori a confine con il “che cazzo sto vedendo” (detto in senso buono anche qui).

Non ho potuto fare a meno di notare una somiglianza tra la protagonista di Copenhagen Cowboy e Samantha Cristoforetti, perché entrambe hanno i capelli corti e le si vede quasi sempre con una tuta blu. A differenza di astrosamantha, però, Miu tira delle astromazzate nelle brevi scene che le bastano per mettere fuori gioco tizi più cattivi e piazzati di lei. Inoltre porta fortuna o sfortuna, anche se alcune composizioni prese dal repertorio figurativo religioso mi suggeriscono di parlare piuttosto di benedizioni e maledizioni. Per questo viene cercata, temuta, allontanata, circuita, blandita da chi si muove nel sottobosco della Copenhagen criminale. Della città danese Copenhagen Cowboy non ha quasi nulla di nominale; invece, sembra ambientata in una dimensione a-spaziale e a-temporale (gli eventi si svolgono nel futuro, ma io neanche me ne ero accorto) in cui persone delle etnie più disparate confluiscono da paesi chiaramente identificabili sulla mappa per farsi la guerra in un non-luogo. Alcuni sembrano licantropi, altri vampiri, Miu potrebbe essere una strega. Anche un bosco ci suggerisce che Refn ha rimasticato ancora una volta il repertorio tematico e contenutistico della fiaba: qui però la messa in scena del soprannaturale somiglia all’equivalente cinematografico di un eufemismo. Non sappiamo se Miu sia un cornetto portafortuna vivente o sono gli altri ad attribuirle certe capacità, né si capisce se quella famiglia di ricchi strani che abita in una casa simile a un castello, vicino a un mattatoio, sia una famiglia di vampiri o, appunto, di ricchi strani. Questa recensione di Polygon lamenta che in Copenhagen Cowboy non si arrivi mai davvero ad abbracciare il mondo intravisto sullo sfondo, ma personalmente mi chiedo se Refn non abbia piuttosto omaggiato se stesso - come suggerisce questo articolo di Collider - ritagliando l’ennesima opera lungo i contorni delle proprie ossessioni. In teoria, Copenhagen Cowboy è la serie di supereroi che a Netflix è stata promessa. In pratica, è un altro delirio estetico del regista di Only God Forgives, in cui crudo realismo e il soprannaturale appena suggerito vengono affogati in un bagno di luci al neon.

“Apri tutto!”

Tra i miei contatti di Facebook sono stati in pochi ad aver parlato di Copenhagen Cowboy, e ancora meno persone lo hanno visto tra coloro che conosco anche dal vivo. Tentando di uscire dalla mia bolla, non sarei in grado di trovare segnali capaci di suggerirne il successo. Nella top 10 delle serie TV più viste in Danimarca dal 2 al 15 gennaio su Netflix, quella di Refn non c’è (e ha pure Copenhagen nel titolo!). Inoltre, nei giorni da quando ho scritto questo articolo a quando lo pubblichiamo, è scesa da 48ma a 169ma serie più popolare secondo IMDB, dopo dopo, tra le altre, Caleidoscopio, Velma, That 90s Show, The Rig, Trial By Fire, The Last of Us, Will Trent e Anne Rice's Mayfair Witches, tutte uscite nel 2023, ma non sempre rette dalle spalle di Netflix. Dicevo che è una parabola interessante per uno che con Drive ha toccato corde che non sapevamo di avere, le stesse che sono state fatte vibrare dal ritorno dei sintetizzatori o dalla vaporwave, e infatti quello potrebbe essere stato l’ultimo film vaporwave prima della vaporwave. Poi, con Only God Forgives Refn si è portato in una zona di confine con il cyberpunk. Cosa è successo poco dopo? Siamo andati in fissa pure con quello! Prima dell’hype che ha circondato l’uscita di Cyberpunk 2077, ci sono stati almeno un paio di esperimenti non riuscitissimi dal punto di vista commerciale (intendo Altered Carbon e Blade Runner 2046) che mi avevano fatto pensare che non sarei mai uscito dalla mia nicchia di nerd della fantascienza distopica. Poi sono arrivati i trend su TikTok ispirati all’ologramma di Ana De Armas in 2049 e i reel che prendono spunto da Cyberpunk Edgerunners. Su Steam sono attualmente classificati 1771 prodotti sotto l’etichetta cyberpunk, tra i quali uno con protagonista un micio di cui avrà parlato finanche il numero di luglio di Attrezzi per il mio giardino.

La copertina di Attrezzi per il mio giardino.

Nonostante Copenhagen Cowboy riprenda molto da vicino l’estetica di Only God Forgives e, quindi, viva di un cyberpunk distillato per uso e consumo del suo regista, questo, e il fatto che sulla carta sia un film di supereroi, non sembra abbia risuonato con le nuove generazioni, con le vecchie, insomma con nessuno al di fuori dello zoccolo duro dei fan del regista, almeno per il momento.

Dopo aver constatato il silenzio che ha accolto l’atterraggio della sua ultima opera, mi sono chiesto se per caso non ci siamo dimenticati di Refn e se questo non dipenda, anche, dal fatto che oggi tutti giocano con gli effetti dei neon in contesti brutali e periferici, al punto che siamo arrivati a dare per scontate sia quel tipo di estetica, sia quel tipo di sensibilità. Prima accennavo alla vaporwave: è stata data per morta un sacco di volte, al punto che la sua stessa morte è diventata un meme. Poi però è morta davvero (o meglio, è diventata vecchia), quando l’hanno spalmata ovunque, dai filtri per i selfie a una pubblicità di libri usati per la scuola che ho visto su Instagram: è stata una morte per saturazione. Sarebbe un controsenso dire che ci siamo scordati di Refn, perché, come dicevo, i suoi film sospesi e in cui la trama si dissolve in una forma ipertrofica sono difficili da vendere a un pubblico allargato. Il problema è che le sue opere hanno avuto anche un certo grado di predittività, quindi, ora che le sue intuizioni hanno assunto la portata di una tendenza, la nicchia di Refn risulta piuttosto affollata. Copenhagen Cowboy contiene micromondi che crescono ai margini della grande città, esplosioni di violenza, cinismo, un futuro che non lo sembra, figurativismo orientale e melting pot: niente di sconosciuto a chi ha giocato a Cyberpunk 2077 o a chi, in un modo o nell’altro, è salito sul treno di Gibson l’ultima volta che ha rifatto il giro. Poteva essere il vantaggio ma magari è il problema, perché, tra l’altro, si tratta di un sacco di alternative più accessibili.

Come andrà a finire? Naturalmente non lo so. Non so se Copenhagen Cowboy sarà in grado di recuperare una partenza loffia e non so se Netflix si aspettasse davvero qualche risonanza da questa serie, o piuttosto non l’abbia acquisita per coccolare il segmento più cinefilo dei suoi abbonati. So di certo che molto dipenderà da Refn, che ha un’altissima opinione del suo lavoro, e ha appena dimostrato di riuscire a fare il cazzo che gli pare anche quando gli viene detto di girare un film di supereroi. Insomma non c’è solo da chiedersi se noi ci stiamo scordando di Refn, ma anche se lui non sia perfettamente in grado di scordarsi di noi.

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