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Game of Thrones, il bello di parlarne dal barbiere

Game of Thrones, il bello di parlarne dal barbiere

OK, alla fine, l’epopea de Il trono di spade Game of Thrones, da qui in avanti – è arrivata al capolinea dopo otto stagioni, portandosi dietro la sua brava dose di polemichette sul finale che nemmeno Lost ai tempi miei, signora mia. Come avrete potuto evincere dal nostro podcast dedicato o dall’incredibile mole di articoli pubblicata in seno alla cover story di questo mese, noialtri di Outcast, nel complesso, siamo – chi più, chi meno - schierati in positivo. O non schierati affatto, alla brutta.

Con Game of Thrones si chiude in qualche modo un’era, quella degli eventi seriali televisivi snocciolati una puntata alla volta con relativo tam tam sui social e, a seguire, discussioni, previsioni, analisi e bisticci in stile Biscardi, ché siamo un paese di allenatori e sceneggiatori.

Questo non significa che produzioni del genere scompariranno da un giorno all’altro, vedi Westworld, ma è innegabile che il trend degli ultimi anni stia andando nella direzione dei modelli distributivi “tutto e subito” adottati da Netflix e compagnia, che inevitabilmente finiscono col plasmare il contenuto che si portano dietro.

«Quagliarella sicuro in attacco».

Se ci fate caso, oggi le serie sono sempre meno “seriali” e sempre più film da sei, sette o dieci ore. Per via del binge watching o, semplicemente, della pratica di recuperare il filo dall’ultima interruzione, gli autori non hanno più bisogno di ricorrere a escamotage classici come il cliffhanger o a episodi contestualmente autosufficienti, per agganciare e ingaggiare gli spettatori. È piuttosto emblematico, in questo senso, il caso di Maniac. La miniserie di Netflix non si prende nemmeno la briga di organizzarsi in sezioni delle medesima durata, passando con nonchalance dai 47 minuti dell’episodio Windmills ai 27 di Ceci N'est Pas Une Drill.

Se, da un lato, questa scelta va a braccetto col taglio schizofrenico del racconto, dall’altro è evidente che lo showrunner Cary Fukunaga, mentre dava forma alla serie, aveva perfettamente chiare in testa le abitudini del suo target. E sapete cosa? Per quanto mi riguarda, ci ha preso, visto che a ‘sta cosa degli episodi asimmetrici quasi non ci ho fatto caso, durante la visione, così come ormai non bado più alla lunghezza dei capitoli di un romanzo, da quando ho preso l’abitudine di leggere su Kindle.

«Ma dove cazzo siamo?»

Durante un Weekly registrato lo scorso autunno, ho avuto la possibilità di confrontarmi sull’argomento con Diego Castelli di Serial Minds. A suo modo di vedere, i nuovi modelli di distribuzione (e conseguente fruizione) stanno incidendo talmente tanto sulla natura del prodotto che, quasi, non avrebbe più senso appoggiarsi alla definizione di serie TV.

Spesso incontro persone che si professano fan delle serie TV in via del binge watching, e tra me e me penso “OK, allora non ti piacciono davvero le serie TV”.

Probabilmente si tratta di un’iperbole, ma credo che la direzione sia giusta: le liturgie e le regole di ingaggio del linguaggio seriale classico stanno svanendo. Linguaggio, tra l’altro, che nel corso degli ultimi vent’anni è già cambiato parecchio. Un fenomeno come Lost, ad esempio, piaccia o non piaccia, è riuscito ad sdoganare il racconto orizzontale al grande pubblico (perlomeno al di fuori delle soap opera, che l’hanno sempre utilizzato), ma per riuscirci nel mercato del 2004, ancora orientato sui ventiquattro episodi stagionali da settembre a maggio, e sugli introiti provenienti dalla vendita di spazi pubblicitari, ha dovuto accettare tutta una serie di compromessi strutturali, per accogliere il maggior numero di spettatori possibili. Durante le prime due o tre stagioni, la serie creata da J. J. Abrams era fruibile a diversi livelli, e uno non pregiudicava l’altro. Tra gli spettatori, c’era chi si struggeva sul triangolo amoroso, chi inseguiva l’avventura con Jack e Sawyer e chi preferiva la componente esoterica che gravitava attorno a Locke.

«Dunque, riguardo al finale... »

Eppure, il Lost del 2004 è molto diverso da quello del 2010. Nel giro di sei anni, la ABC si è trovata a fare i conti con l’esplosione di un fenomeno, quello delle serie TV, che aveva contribuito a lanciare. Con la moltiplicazione dell’offerta e la frammentazione del target – senza contare lo sciopero degli sceneggiatori a cavallo tra il 2007 e il 2008 – il modello dei ventiquattro episodi era diventato troppo rischioso, oltre che costoso. Così, dalla quarta stagione in avanti, la serie ha ridotto il numero di puntate di circa un terzo, asciugando le linee narrative e assestandosi sul target più nerd, che nel frattempo era diventato quello predominante, in un crescendo di viaggi nel tempo, fisica quantistica, citazioni da Star Wars e cose del genere.

Game of Thrones entra in gioco esattamente in quel momento lì, e il suo percorso sarà - con un sacco di “ma” nel mezzo - inverso a quello di Lost. La prima stagione della serie HBO, andata in onda tra l’aprile e il giugno del 2011 e già assestata sui dieci puntate, si propone a un target abbastanza specifico di nerd, seminerd, amanti della letteratura fantasy e dei romanzi di Martin, o fan de Il signore degli anelli cinematografico (la presenza di Sean Bean è quasi una dichiarazione di intenti, in quel senso). Inoltre, già dalla prima puntata, gli autori tirano in ballo i non morti, per non perdere il giro di The Walking Dead.

Quello dietro è il fienile di Hershel.

Personalmente, Game of Thrones l’ho incrociato più o meno come incrociavo tutte le altre serie TV di quel periodo bulimico, ossia attraverso le dritte spacciate da Italiansubs e Serialmente. Guardai la prima puntata, la seconda, la terza e poi l’intera stagione. Mi piacque moltissimo. A colpirmi erano state le atmosfere, piuttosto diverse da quelle dei fantasy a cui ero abituato e più vicine al medioevo cupo de Il nome della rosa. Poi gli intrecci e le trame politiche, i dialoghi, il cinico sarcasmo di alcuni personaggi ma, soprattutto, quel non so ché di inquietante che emergeva da alcune sequenze, tra un incesto e un allattamento fuori tempo massimo. Il Game of Thrones degli inizi era evidentemente una serie per molti, perché funzionava, ma non per tutti.

Da un certo punto in avanti, però, saranno stati il passaparola, le zinne o i draghi, a un certo punto ha fatto il botto ed è riuscita a bucare la nicchia degli appassionati di fantasy e compagnia fino a guadagnarsi un consenso pressoché universale. Consenso che ha portato soldi e maestranze, alzando il livello della produzione e conseguentemente della messa in scena. Tra le barchette di carta delle Acque Nere e la maestosa Battaglia dei bastardi c’è un abisso, con quest’ultima che tiene tranquillamente testa allo scontro del Fosso di Helm ne Le due torri. L’ultima stagione, poi, è stata pazzesca, con la Battaglia di Grande Inverno coraggiosamente virata sul buio per valorizzare al massimo le rare esplosioni di luce, e l’assalto portato dall’esercito di Daenerys contro Approdo del Re (ho la sensazione che il partito del “no” dia troppo peso alla sceneggiatura e non ne dia abbastanza a quello che passa davanti agli occhi, ma vai a sapere).

Se lo chiedete a me, ha vinto il bastardo sbagliato.

Il successo - assieme a mille altre variabili, eh - ha pure contribuito a spostare l’asse della narrazione e il tono generale della serie che, dopo il picco (con una testa di metalupo sopra) di violenza delle Nozze Rosse è andata pian piano ammorbidendosi. È venuto meno quel macabro a cui accennavo poco sopra, a favore di momenti fantasy dal taglio più convenzionale, con tanto di party di guerrieri e cose così.

Tutto questo se lo chiedete a me non ha rovinato il piatto, anzi. Solo, nel bene e nel male, il Game of Thrones della prima stagione è diverso da quello della quarta o della quinta e, sicuramente, da quello dell’ottava. Ho la sensazione che gli autori, Benioff e Weiss, abbiano scelto le parole di Tyrion per dire la loro: quando il Folletto confida a Jamie che ormai non va più per bordelli come una volta e che ha imparato, invecchiando, ad assumersi le proprie responsabilità, tra le righe sembra parlare tra del rapporto tra la serie e il suo pubblico. Pubblico, tra l’altro, che Game of Thrones ha in una certa misura contribuito a svezzare nei confronti di un genere tradizionalmente di nicchia.

Game of Thrones ha anche contribuito ad avvicinare molte ragazze ad associazioni giovanili di estrema destra.

Nel corso degli ultimi anni, mi è capitato di chiacchierare di Game of Thrones con gente – tipo il mio barbiere - che fino a qualche tempo fa non avrebbe perso un minuto dietro a viverne spacciate per draghi. Ho visto ragazzine indossare t-shirt brandizzate Mother of Dragons, e ragazzini commentare l’assetto tattico degli Illuminati con la stessa foga dedicata agli eventi sportivi (con i quali, tra l’altro, la serie HBO ha condiviso un certo sentimento ansiogeno attorno al tema degli spoiler). Poi, magari, per molti, l’esperienza con Game of Thrones costituirà l’unica incursione nel fantasy della vita, e ciao Pep, così come quarant’anni fa è capitato con Star Wars (che è un fantasy, anche se non ci sono cavalli).

Ciò nonostante, è improbabile che un botto del genere passi senza lasciare una traccia sull’immaginario collettivo, e per il poco che mi riguarda, la possibilità di parlare di draghi mentre mi scorciano i capelli vale quanto il passaggio da una monarchia assoluta a quella costituzionale.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Il trono di spade e al fantasy lercio, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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