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Lo squalo dietro la porta

Lo squalo dietro la porta

Il monster movie definitivo che, guarda un po’, era anche un film incredibile. Ma da piccolo potevo solo immaginarlo.

Il mio primo contatto con Lo squalo è stato segnato da una porta, quella che i miei genitori mi chiusero in faccia quando stavo per entrare in cucina a vedere il film con loro. Non ricordo quanti anni avevo, ma evidentemente pochi o comunque non abbastanza. Non so perché ricordo questo dettaglio, anzi sì, faceva parte di uno schema ben preciso. Quando c’era un film “proibito”, lo guardavano in cucina, con la porta chiusa, lasciandomi il salotto, dove c’era il Commodore, in cui potevo annacquare il fascino proibito di carpire qualche dettaglio origliando.

Successe anche con Un lupo mannaro americano a Londra (credo, eh) e con la prima volta che Robocop arrivò in TV, ma solo per la scena in cui Murphy viene crivellato di colpi. Poi potevo rientrare, dopo aver magari crivellato altrettanta gente in un gioco. Ma erano pixel, eravamo giovani e tutto ci era concesso.

Che poi li capisco anche i miei genitori: avrò avuto non più di dieci anni, magari la gente divorata e le mani mozzate non facevano per me.

Hai voglia a spiegare che era tutto finto.

Però porca puttana se adoravo gli squali. Era la prosecuzione del fascino per i dinosauri con altri mezzi. Squali, coccodrilli, serpenti erano per me il simbolo della perfezione. Erano già a posto così milioni di anni fa, tutto ciò che hanno dovuto fare per andare avanti è stato fare qualche taglio al budget e rimpicciolirsi. Mica come le balene, che prima erano fondamentalmente ippopotamini strani.

Inevitabilmente, Lo squalo mi affascinava e mi tentava, era un film proibito col mio protagonista preferito, come se all’epoca avessero fatto un porno con Darth Vader.

E poi c’era la musica, quella maledetta musica di John Williams che con due note diceva già tutto, come un sonar, un impulso sonoro che ti dichiara la distanza dal bersaglio. Una roba talmente iconica che mio padre, quel bastardo, me la cacciava ancora di più in testa, perché la canticchiava quando mi nascondevo e lui veniva a cercarmi. La sua forza è tale che ancora oggi ricordo quei momenti e magari mi dimentico cosa ho fatto l’anno scorso.

Non è che debba stare qua a descrivervi più di tanto la grandezza de Lo squalo. Se l’avete visto, la riconoscete. Se non l’avete visto, fatelo subito e capirete. Tutti i film di un certo genere di cinema, dal catastrofico al blockbuster estivo, nascono là. Questo senza contare il messaggio politico del governatore che cerca di insabbiare tutto, finché non è più possibile nascondere la notizia di uno squalo assassino. Sottile ma abbastanza palese metafora di come si comportano di solito i governanti e, da quel momento, topos narrativo tipico di ogni film catastrofico, insieme allo scienziato a cui non viene data retta.

Un’altra particolarità del film è l’insolito trio di personaggio che cercano di uccidere lo squalo, figure ben lontane da quella dell’eroe senza macchia e senza paura che uccide il drago, piuttosto tre esseri umani che un po’ si disprezzano (e un po’ disprezziamo anche noi), che lavorano per un obiettivo comune.

I tre marmittoni.

Ci sono migliaia di storie che circondano la produzione: che inizialmente volessero girarlo in una piscina, per risparmiare, ma Spielberg insistette per poter contare su un paesino, sul mare, perché altrimenti non avrebbe mai potuto concedersi le inquadrature che voleva. Questa scelta portò la troupe a Martha’s Vineyard e, per rendere le cose più realistiche, quasi tutti gli abitanti furono cooptati come comparse. Ancora oggi Spielberg, in ogni contenuto speciale, non fa che lamentarsi del tempo terrificante che inizialmente funestò le riprese, i problemi tecnici, l’ansia dei produttori, per non parlare della sua, che all’epoca era un bravo regista di belle speranze, che dopo Duel cercava di trasformare la metafora di un autoarticolato in uno squalo gigante.

E proprio la creatura si rivelò il casino peggiore e la più grande fortuna del film, perché la sua realizzazione fu un parto, un dramma ingegneristico e logistico che costrinse Spielberg a usarla il meno possibile, giocando tutto sulla suggestione, sul suo punto di vista e poco altro. Questo trasformò il film in un capolavoro di tensione, in cui solo nei momenti finali abbiamo un punto di vista chiaro sulla creatura, che ci viene presentata all’improvviso, senza alcuna cerimonia, in tutta la sua terribile apparenza. Vederlo comparire ad ogni uccisione avrebbe indebolito parecchio la tenuta della pellicola nel tempo e il suo valore, sarebbe stato uno dei tanti monster movie. Che poi da piccolo onestamente io lo vedevo proprio così, un monster movie in cui esaltarsi quando un tizio viene trascinato nell’acqua mentre urlava. Il resto lo scopri dopo, da grande. Forse è proprio questa la grandezza di alcune opere pop come Lo squalo o Godzilla: che hanno sempre qualcosa da dire, in base all’età in cui ti avvicini.

Il poster di Lo squalo (Jaws) campeggia su una parete in camera di Will Byers nelle varie puntate della prima stagione di Stranger Things. Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo

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