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Sei mesi di Xenoblade Chronicles X | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Superati i trenta, al giro di boa dei quaranta, il tempo da poter dedicare agli RPG in generale, e in particolare ai JRPG, diventa una questione di compromessi.

Ben lontani dai tempi delle superiori, in cui ci si poteva permettere di finire Final Fantasy VIII al 100%, ci si ritrova a scendere a patti con la vita reale, il lavoro, gli impegni, le relazioni, la vita sociale e tutto il resto.

Provvidenziale fu quindi, tre anni fa, intorno a marzo-aprile 2016, un intervento al palato che mi tenne a casa dal lavoro per circa una settimana, dandomi quindi modo di inserire nella Wii U il disco di Xenoblade Chronicles X, pubblicato nel dicembre precedente, dopo tante anticipazioni e una corposa dose di gameplay presentato dalla Nintendo Treehouse durante l’E3 2015.

Sapevo da howlongtobeat che l’ultima - al tempo - fatica dei Monolith, uno fra i migliori studi di sviluppo Second Party di Nintendo, richiedeva mediamente 109 ore per essere finito e la bellezza di 281 ore per essere completato, ed ero quindi esitante e timoroso nell’iniziare un viaggio che mi avrebbe tenuto lontano da altre esperienze videoludiche e avrebbe pesantemente limitato le mie interazioni sociali, per circa sei mesi.

Attrezzato di cortisone, antibiotico, bevande fresche, yogurt da bere, ricotta e qualsiasi alimento compatibile con il mio palato pieno di punti, pus e dolore, cominciai questa nuova avventura, ben conscio delle differenze col precedente titolo pubblicato su Wii, su New Nintendo 3DS e infine su Wii U - con una patch che permette di giocarci col GamePad in modalità emulazione Wii, nel caso voleste recuperarlo in qualche modo prima che Nintendo ci degni di un port su Switch.

Il primo impatto fu epico: dai tempi di World of Warcraft Vanilla non provavo una simile sensazione di libertà mista al sentirmi piccolo in un mondo enorme. Sul GamePad, la mappa del pianeta Mira si stagliava enorme e ignota, spostarsi da una zona all’altra richiedeva un sacco di tempo, attenzione, meraviglia e stupore.

Quei geni dei Monolith, che poi hanno aiutato Nintendo a sviluppare la mappa di The Legend of Zelda: Breath of the Wild, avevano creato un mondo mozzafiato. Nulla a che vedere con la struttura lineare del predecessore: appena usciti dall’hub principale, la città di Neo Los Angeles, ci si ritrovava davanti una enorme pianura, piena di valli, altopiani, depressioni, colline, montagne, spiagge, grotte, anfratti, archi di pietra naturali e soprattutto altissime isole sospese nel cielo e pressoché irraggiungibili: tutto con delle proporzioni strabilianti, ci si sentiva formiche al cospetto dell’enormità del mondo virtuale in cui si veniva catapultati.

La sospensione di incredulità, nonostante la mancanza di tutorial decenti (una delle pochissime pecche di questo capolavoro), mi fece istantaneamente dimenticare il dolore, il fastidio e il gonfiore del palato tagliuzzato dal chirurgo maxillo-facciale.

Tutto ciò che vedevo, ora, era la vastità di Mira. Gigantesche bestie selvatiche, neutrali o aggressive, di livelli simili o enormemente superiore al mio, si stagliavano intorno alla città.

In ogni zona della mappa, segreti in quantità. Innumerevoli quest, principali e secondarie, si aprivano davanti alla mia interfaccia: ero spiazzato e mi sentivo inizialmente perduto nell’abbondanza di contenuti che avevo davanti.

Una settimana di convalescenza è quanto di meglio si possa sperare per un trentaquattrenne che ricorda con nostalgico ardore i tempi in cui aveva l’influenza, non poteva andare a scuola e passava la sua mattinata sotto le coperte su Super Mario World o Sonic The Hedgehog 2, sentendosi meglio che mai!

È grandiosa, la nostra passione: ci permette di star bene in momenti in cui solitamente ci si annoierebbe a morte, sperando che il tempo passi al più presto. Una grandiosità forse superata solo dall’invenzione dell’aria condizionata (citando lo studio Gainax).

I menù, strapieni di comandi e personalizzazioni, sono vastissimi.

Superato il senso di smarrimento iniziale, leggendo più volte le sessanta pagine di manuale digitale, soffermandomi su tutorial in giro per forum, siti e gruppi Facebook, cominciai a macinare le meccaniche del gioco, non senza alcuna fatica, un po’ perché stavo pure decisamente rimbecillito dal cortisone e dalle benzodiazepine, che mi avevano iniettato insieme agli anestetici per farmi dimenticare il fatto che qualche ora prima il chirurgo mi stava effettivamente martellando e scalpellando dentro la bocca, dopo avermi scoperchiato il palato.

Ogni radar attivato, ogni quest completata, ogni membro dell’equipaggio recuperato aumentavano la mia connessione con un titolo dall’accezione socratica: più cose scoprivo, più mi rendevo conto di non sapere nulla di Mira, del motivo per cui ero su quel pianeta insieme agli altri superstiti, della connessione col gioco precedente, della quantità di civiltà di quel pianeta, le sue leggende, le civiltà estinte, quelle sopravvissute, gli invasori, le loro motivazioni... Mai mi ero trovato davanti a una simile quantità di lore in un gioco, paragonabile forse a World of Warcraft.

Il tramonto lascia senza parole.

Senza accorgermene, avevo passato l’intera giornata su Mira. Ero arrivato al secondo bioma, la foresta, che mi aveva lasciato ancora più sbalordito del primo. Davanti a me si stagliavano liane, livelli intrecciati e sovrapposti con tronchi, passaggi, rocce alberi altissimi e bestie di ogni tipo. Esplorare quel territorio di notte, vedere l’alba, il sole che faceva ombra sulla foresta pluviale, il tramonto, la sera rossa... una esperienza bellissima.

Dopo il primo giorno, approvai la mia scelta: avevo fatto benissimo a cominciare Xenoblade Chronicles X; finirlo al 99% mi avrebbe portato via circa sei mesi di vita reale, spalmati in 260 ore di gioco, e una manciata di side quest non portate a termine: richiedevano un grinding a mio dire esagerato, per aumentare al massimo l’intesa con alcuni degli NPC.

La mia settimana di convalescenza volò, tornai alla vita normale ma dedicai quasi ogni sera due o tr ore a Mira. Non me ne sono pentito.

Le intese. Un incubo relazionale, mutuato dal primo titolo e portato a livello over 9000.

Non ho neanche sbloccato gli skell - i mech - più potenti del gioco (necessari per battere nemici di livello 100 a fronte del mio livello massimo, 60, dopo aver raccolto una marea di materiali rari farmando nemici con un drop rate comunque bassissimo degli stessi). L’endgame di un gioco così vasto richiede scelte progettuali, in questo senso, ma quelle altre 20 o 30 ore non me la son sentita di dedicarle alla creatura di Tetsuya Takahashi, sentendomi già soddisfatto così, dopo aver scoperto quasi ogni segreto di Mira, aver assistito a sconcertanti rivelazioni, essere rimasto per circa un’ora a bocca aperta cumulativamente e aver assegnato a Xenoblade Chronicles X un posto nella mia top 10 di sempre.

Recuperatelo: investirete sei mesi del vostro tempo libero, ma la soddisfazione sarà enorme.

Caption: ogni singolo pezzo degli skell è personalizzabile, preparatevi a perdere ore e ore.

Ora dovete solo scegliere se giocare prima a Xenoblade Chronicles, a Xenoblade Chronicles X, o a Xenoblade Chronicles 2: non vorrei davvero essere nei vostri panni. Per quanto mi riguarda, dovrò solo decidere quando accendere Switch.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’arrivo di Neon Genesis Evangelion su Netflix e ai robottoni in generale, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.