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Wipeout è un orgasmo audiovisivo a 1000km/h

Architetture sinuose, curve morbide, pubblicità al neon che si sciolgono appena la navicella parte, il panorama schiacciato dall’accelerazione sotto il cielo di un futuro che pare perfetto, senza traumi, idealizzato nel lusso “per tutti” di uno sviluppo tecnologico sognato negli anni Novanta. Uno scenario iper-estetico, di cui il dorato mondo delle corse antigravitazionali tiene nascosti i lati oscuri, lasciando però intuire che la violenza non è solo apprezzata ma incoraggiata. Un moderno Colosseo su pista dove i piloti si scannano a mach-1, mentre il pubblico gode dello spettacolo affacciato dalle terrazze di megacondomini dalle facciate lucide, perfettamente solarpunk, osservando la scia di un missile Feisar colpire e disintegrare la fusoliera della nave Auricom Industries al comando. L’eco dell’impatto perfettamente sincronizzato allo schiocco di una bottiglia di champagne appena aperta. Il “futuro credibile” di Psygnosis e The Designers Republic è un sogno ad occhi aperti, nato per creare il contesto audiovisivo perfetto ad una velocità mai sperimentata prima su console, una velocità da epistassi, come la famosa pubblicità che lo rese icona istantanea PlayStation.

Controversa, potentissima, probabilmente una delle pubblicità a tema videoludico più famose di sempre. Ma è soprattutto da notare come la musica (con tanto di album ufficiale sponsorizzato) sia un vero e proprio selling point del gioco.

“Questo non è Mario Kart” sembra urlare il gioco in faccia ai giocatori. È un assaggio della Formula 1 del futuro, distopica, ultra-cool, violenta e ipersonica; coi dorsali non si salta, si azionano gli aerofreni, si utilizzano armi militari per avere la meglio sugli avversari e, se non si è abbastanza bravi, svegli, o cattivi, al traguardo ci si arriva carbonizzati. Red Bull come sponsor in-game e i nomi più importanti della scena post-rave britannica a dare vita ad alcune delle colonne sonore più dopanti, futuristiche, sinestesiche di sempre. The Prodigy, Chemical Brothers, Orbital, The Future Sound of London, sembravano freak usciti da un racconto cyberpunk, perfettamente integrati in quel mondo lì; artisti di una dimensione parallela, pronti a spacciare techno-eccitanti da assorbire per via uditiva, diffusi nell’organismo da una forza-g visivamente indotta, illusoria quanto capace di schiacciare contro lo schienale del divano, spettinati, sconvolti, i riflessi costretti a fare gli straordinari. Mentre Firestarter sbatte ritmicamente il cervello contro la scatola cranica, il sofisticato gameplay made in UK racconta un’idea di futuro, l’anno 2048 come anno zero: motori silenziosi, sibilanti, potenti come quelli di un caccia militare per affrontare tracciati estremi, eccentrici incroci tra circuiti e rollercoaster, dove paraboliche e loop trasformano quella che, ad oggi, è un’attività prettamente orizzontale, in un’esperienza di guida a 360°, quasi un air show a due spanne dal terreno. Le navette fendono l’aria, ci nuotano dentro, immerse in un fluido consistente, virtualmente credibile e ludicamente tangibile, che ne rende eleganti e rotonde le virate, come motoscafi che sfrecciano a pelo d’acqua. Le curve vanno anticipate, puntando il muso all’interno per poi gestire la traiettoria con gli aerofreni e lasciare che la fisica faccia il resto, mollando la cloche in uscita, morbidi, mentre la scia di plasma che si libera dallo scarico replica fluorescente la traiettoria appena compiuta. Un modello di guida basato su un’ipotesi ingegneristica, quasi simulativo pur nella sua immediatezza.

L’estetica del 2048, l’ultimo episodio prima del fallimento di Liverpool Studio, mi piace particolarmente perché racconta il passaggio di testimone tra le corse su ruote a quelle antigravitazionali, così come il mondo di gioco mescola architetture contemporanee a scorci futuristici.

Wipeout, in tutte le sue incarnazioni (con buona pace del mediocre Fusion, che un po’ tutti tendiamo a dimenticare), è un’esperienza ritmica, ipnotica, dove tutto si fonde e confonde; la velocità distorce, il tracciato suona, la violenza della gara esalta, la guida armonizza il tutto. E il corpo risponde, reagisce, la testa a tempo coi bpm, il pad che asseconda le curve, la schiena che si irrigidisce ad ogni razzo lanciato. Bam-bam-bam-bam, una spietata, fenomenale, galvanizzante corsa in 4/4. È un festival di musica elettronica, un progetto di architettura, il motorsport del futuro, un corso accelerato di graphic design e un orgasmo ludico, tutto centrifugato e servito per via epidermica, a contatto col DualShock. Un’esperienza che inizia dalle copertine e continua nei menù, con quei font, colori, loghi, rimasti riconoscibilissimi nonostante le reinterpretazioni, capitolo dopo capitolo, per poi venire avvolti, in gara, da una user interface che, se ce ne fosse ancora bisogno, dimostra un gusto estetico fuori parametro; tutto chiaro, al posto giusto, come fosse in sovrimpressione sulla visiera del casco, a portata di sguardo, immersiva e mai invasiva: la sensazione di essere sempre in controllo. Una manciata di giri in totale apnea per poi ritornare al presente. Sarà per questo che adoro passeggiare per Tre Torri, a Milano, cercando di ignorare il classismo estremo che quell’architettura rappresenta, ad oggi, per viverne le forme, gli spazi, immaginando un tracciato che si snodi attorno ai grattacieli, tra 100 anni. Una fantasia solarpunk per pochi milionari che sogno poter diventare alla portata di tutti, un giorno, girando per i paddock ad osservare i nuovi modelli di Assegai Developments e Goteki 45.

I loghi di The Designers Republic sono pornografia, soprattutto per un grafico come me.

La serie Psygnosis/Liverpool Studio si è dimostrata non replicabile, nonostante gli svariati tentativi, pur virtuosi a livello ludico ma incapaci di incarnare la coerenza di chi quel mondo sembra averlo visto coi propri occhi, per poi raccontarlo attraverso il videogioco, rendendolo iconico e rilevante come, forse, nessun altro racing. Proprio per la capacità che ha dimostrato nel riuscire a mettere d’accordo correnti estetiche, generi musicali e giocabilità che sembravano solo essere in attesa di incontrarsi.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Motori in pista”, che potete trovare riassunta qua.