Outcast

View Original

VGB - Vecchi Giochi Brutti #4

I giochi del passato sono tutti capolavori, giusto? Sbagliato, e in questa rubrica andiamo proprio a ripescare i bidoni d'annata, le peggiori vaccate, le operazioni commerciali che speravamo di aver rimosso dalla memoria. Invece eccole qua, analizzate una ad una con rinnovato sadismo e una punta di ironia. Episodio 4 – Salvataggi? Quali salvataggi?

Di questi tempi, o almeno fino a un paio d'anni fa, va di moda criticare i giochi moderni perché troppo facili, troppo di massa e troppo pieni di salvataggi e checkpoint. Se è vero che, il più delle volte, un titolo moderno praticamente si gioca da solo (basti pensare ai tutorial) è anche vero che una trentina d'anni fa si stava peggio, e di molto. I videogiochi non solo non avevano alcun salvataggio o checkpoint, né tutorial di sorta, ma ci provavano gusto a maltrattare il giocatore, quando non provavano direttamente a violentarlo, senza vaselina. Signori e signori, fate un applauso al capostipite dei giochi rognosamente difficili: Ghosts'n Goblins!

OK, terminate le celebrazioni, veniamo a noi: l'aspetto che più faceva infuriare gli utenti di allora era proprio l'assenza di qualsivoglia memorizzazione dei progressi raggiunti, in parte giustificata dai limiti hardware del tempo. Si parla degli anni '80, quando la parola hard disk evocava soltanto oggetti erotici più originali del solito. E salvare su cassetta o dischetto sarebbe stato praticamente impossibile. Ma più che altro in molti non ne sentivano nemmeno il bisogno, da quanto l'hobby dei videogame era sinonimo di masochismo. Se un gioco arcade poteva anche essere ripreso tutte le volte dall'inizio, con action adventure e GDR la questione si faceva molto più complicata.

Personalmente, ai tempi del Commodore 64, giocai molto di più l'oscida conversione di Out Run che The Last Ninja II, solo perché nel secondo schiattavo sempre vicino alla fine. E rifarmi tutto dall'inizio era una prospettiva peggiore che vestirmi da Ninja e correre per la città imitando il protagonista.

La rivoluzione, se così vogliamo chiamarla, arrivò tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 con la diffusione contemporanea delle console e delle avventure grafiche. Nel primo caso, fenomeni come Zelda su NES avevano dimostrato quanto potesse essere utile una batteria tampone nella cartuccia. Nel secondo, il boom di Monkey Island e delle avventure Lucas creò in pratica un nuovo genere, in cui si poteva riprendere il racconto da dove l'avevamo interrotto, esattamente come nei libri.

Ma siccome erano tempi duri e spesso pure bastardi dentro, l'epoca degli sbattimenti non era per niente finita: vogliamo dimenticarci le password? Se oggi sono fastidiose quando dobbiamo accedere a qualche account, ai tempi erano così indisponenti da farci passare del tutto la voglia di giocare. E in certi casi i produttori sembravano provare gusto a creare sistemi di password sempre più astrusi e machiavellici. Erano rarissimi i casi in cui bastava scrivere una parola di poche lettere: molto più spesso dovevamo allineare una decina di simboli con le costellazioni della stagione in corso, stando attenti al tasso di umidità e alla fase lunare.

Ovviamente esagero, ma se pensiamo a Castlevania per Mega Drive e ai suoi disegni, che richiedevano buone doti artistiche per essere annotati, non si va molto lontano. Il sottoscritto, da vero masochista seriale, aveva anche sprecato mesi annotando le password nipponiche di Ganbare Goemon per Super Nintendo, rischiando il manicomio tra un ideogramma e l'altro.

Quindi, non lasciamoci prendere dalla nostalgia rimuovendo i fastidi del passato: se oggi molti giochi sono fin troppo facili, possiamo sempre regolare la difficoltà. E comunque di titoli impegnativi ne escono ancora. Nella cosiddetta “età dell'oro” potevi solo accettare la punizione inflitta dal gioco, e sperare che si sentisse più buono della partita precedente.