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Una vita al massimo va ancora al massimo

La scorsa settimana, per festeggiare come si deve il primo mesiversario di quarantena, mi sono sparato di filotto due filmoni: uno mai visto prima, Lilo & Stitch, che quando uscì nel 2002, evidentemente, stavo ancora sotto al peggior Star Wars della storia per aver voglia di cinema; e a seguire Una vita al massimo, che non riguardavo dai secoli. Non dico dai tempi di Telepiù, ma quasi. Tra l’altro, curiosamente, entrambi i film contengono rifermenti a Elvis, pensa te.

Ad ogni modo, Una vita al massimo era un sacco che lo tenevo in canna: mi ero ripromesso di recuperarlo subito dopo avere archiviato la prima stagione di The End of the F***ing World, che gli è in debito di millemila cose, e pure dopo aver incrociato per caso Natural Born Killers, che invece è il suo fratello scemo. Figaccione, tutto serio, ma scemo. Con il film di Stone, Una vita al massimo condivide la struttura del racconto: un’inseguimento vestito da fuga d’amore, con un lui e una lei incasinatissimi, braccati dal mondo intero ma benedetti dal reciproco incontro.

E condivide pure la mano di Quentin Tarantino, in quella che è probabilmente la sceneggiatura più autobiografica mai scritta dal cineasta di Knoxville, nonché una fra le poche che non si è preso il disturbo di portare in scena personalmente. La prima bozza del film risale addirittura al 1987, ossia a quando il nostro lavorava con Roger Avary dietro al bancone del Manhattan Beach Video Archives. A quanto pare, fu proprio Avary a buttare giù il soggetto di quello che in seguito, sotto il trattamento del compare, si sarebbe trasformato nella sceneggiatura incompiuta di un film mai girato: Open Road.

Tarantino tentò di piazzare il copione per anni, a destra e a manca, ma alla fine si risolse per cederlo a Tony Scott dietro compenso di cinquantamila dollari, in modo da finanziarsi il suo film di gangster. Scott, assieme ad Avary, adattò l’idea di base, segò il montaggio non sequenziale inizialmente previsto (e successivamente ereditato da chi sappiamo), cambiò il finale e finì per dirigere il racconto più autobiografico del collega.

Questa scena finisce dritta là in cima, tra le robe migliori piazzate da Dennis Hopper e Christopher Walken (e, ripeto, Dennis Hopper e Christopher Walken).

Occhio che quando dico autobiografico non scherzo mica, dal momento che il protagonista della vicenda, il Clarence Worley di Christian Slater, è a tutti gli effetti un alter ego di Tarantino: i due condividono l’impiego (anche se Clarence lavora in un negozio di fumetti), un background famigliare incasinato, ma soprattutto una visione del mondo da nerd del cinema di arti marziali e di supereroi vari. Più in generale, di tutto quello che oggi pertiene all’immaginario tarantiniano.

Ma se in questa linea del multiverso non ci è dato sapere come sarebbe stato l’eventuale Una vita al massimo diretto da Tarantino, per quanto mi riguarda, direi che siamo parecchio fortunati ad avere tra le mani quello di Scott, che diversamente da Stone, riuscì a non dissipare il talento per i dialoghi del collega, oltre a quella capacità di costruire delle scene iper-eloquenti senza sprecare un millimetro di inquadratura.

Tipo, quando lo spettatore incontra per la prima volta il padre di Clarence, interpretato da Dennis Hopper, ha senz’altro la sensazione di essere davanti al tipico “working class hero” che ne ha passata una di troppo. L’impressione viene confermata didascalicamente dai dialoghi, ma a farla davvero esplodere sono due elementi apparentemente irrilevanti piazzati in scena: i televisori.

La baracca del padre di Clarence.

All’interno della roulotte dove vive Hopper, ci sono due televisori disposti uno sopra l’altro. Facile immaginare che quello sotto sia guasto e che nessuno si sia mai deciso a smaltirlo. Quel semplice atto di sciatteria prende tutti i problemi dell’uomo (la solitudine, i fallimenti economici, l’alcolismo, la depressione) e fornisce loro un contesto, li rende reali. Senza contare il sottotesto lugubre che accompagna la “distorsione” dell'oggetto televisore.

Quello stesso dettaglio, anni dopo, Tarantino se lo giocherà anche in un’altro contesto, similmente disagiato ma decisamente più sinistro: il ranch della Manson Family.

Quell’altra baracca là.

Tornando a Scott, il regista non si limitò a tenere il punto dei due sceneggiatori ma lo reinterpretò secondo il suo stile, con quel gusto per le composizioni in movimento, la luce e l’uso delle musiche; finendo per domare tutto il peperoncino senza spegnerlo troppo, in modo da renderlo commestibile anche allo spettatore più casuale. E una roba così non te la inventi da un giorno all’altro, è frutto di anni d’esperienza spesi tra videoclip e film di prima fascia.

A riguardarlo oggi, Una vita al massimo, per quanto a tratti ipercinetico, violento, sboccato e totalmente anni Novanta, resta un film molto fruibile e apparentemente “facile”. Sopra tutti i dialoghi sofisticati, le lacrime e le pallottole, c’è una storia d’amore classica affidata a un cast assolutamente pazzesco e pienamente hollywoodiano (Christian Slater e Patricia Arquette, ma anche Dennis Hopper, Val Kilmer, Gary Oldman, Brad Pitt e Christopher Walken), che, in via della direzione di Scott, riesce a masticare le battute del duo Tarantino/Avery senza sputazzare in giro.

Altro che Churchill.

Sempre a riguardarlo oggi, Una vita al massimo costituisce un bigino dell’immaginario di Tarantino prima che fosse figo. E fa strano, perché da un lato è un artefatto totalmente riconoscibile, col senno di poi; ma dall’altro, galleggia in questa atmosfera di freschezza e sincerità, di occhioni sgranati e di citazioni che sembrano quasi spudorate, se non fosse che all’epoca, probabilmente, le coglievano in quattro stronzi.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’escapismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.