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The Town Of Light è un pugno nello stomaco

Fuori piove, è buio. Cuffie in testa e The Mantle degli Agalloch nelle orecchie. Io The Town Of Light l’ho “finito” ieri, volevo scriverne di getto, ma non ce l’ho fatta. Troppo dura, forte, straziante l’esperienza con il gioco degli italiani LKA per poter buttare giù dei pareri a caldo. Ho pensato quindi di dormirci su, per metabolizzare meglio il tutto. Parte l’intro, A Celebration for the Death Of A Man. Forse non è il massimo per tirarmi su in questa uggiosa giornata. Ora inizia il secondo brano e ancora fatico a trovare le parole adatte. Non è servito a molto dormirci su, ma dentro me sento che devo parlarvi di The Town Of Light. Lo devo a me stesso e un po’ anche a Renée. Perché The Town Of Light è soprattutto la sua storia, quella di una ragazzina di sedici anni afflitta da problemi psichici, con l’unica vera colpa di essere nata nell’Italia di inizio Novecento, quando i manicomi erano ancora legali. Considerati case di cura, erano in realtà il ripostiglio dove la società italiana si liberava dei suoi oggetti considerati inutili, uomini e donne reclusi momentaneamente o, nel peggiore dei casi, a vita. Posti in cui, tra elettroshock e sevizie di ogni sorta, spesso non si guariva: si entrava per guarire dalla “pazzia”, ma lì dentro non potevi che diventare folle.

C’è una concezione, dura a morire presso una larga fetta di pubblico, del videogioco come qualcosa che debba essere soprattutto divertente. Sarà forse per via del suo stesso nome o, ancora, perché il mezzo affonda le sue radici tra cabinati e sale giochi. Insomma, per molte persone un videogioco è qualcosa con il quale concedersi minuti o ore di svago, per staccare dalla noia o dallo stress quotidiano. The Town Of Light, degli italianissimi LKA, non è divertente, affatto. Ma per me è un signor videogioco.

Per molti sarà difficile considerarlo tale. E non tanto per la sua natura angosciosa, riflessiva e opprimente, ma anche perché The Town Of Light può iscriversi alla ormai lunga schiera dei walking sim che tanto spaccano critica e pubblico. Anche se talvolta è presente qualche enigma semplicissimo, di fatto in The Town Of Light si vaga in giro alla ricerca del punto o dell’oggetto che permette di proseguire nel gioco, alla ricerca dei ricordi di Renée.

L’ambientazione del manicomio di Volterra è ricostruita con estremo realismo e fedeltà, tanto che è possibile davvero percepire la vita di tutte le povere anime in pena che l’ormai fatiscente struttura ha ospitato. Letti divelti, ruggine, detriti e macerie fanno da sfondo e spesso ostacolo al vagare di Renée, mentre scava nella sua mente e tra le cartelle cliniche che le permetteranno (forse) di ricostruire la verità di quei tanti, troppi anni rinchiusa come fosse la peggiore delle criminali.

Le tavole animate che raccontano alcuni eventi sono splendide.

Ascolto le chitarre di I am The Wooden Doors e ripenso alla colonna sonora di The Town Of Light, quantomai efficace nel restituire le sensazioni di smarrimento, terrore e inquietudine che si provano nell’esplorare l’ex ospedale psichiatrico di Volterra, in un andirivieni tra linee temporali diverse che portano memorie di quando il complesso era in funzione, per poi tornare al degrado e ai muri imbrattati da graffiti della struttura abbandonata. Qualcuno erroneamente dirà che c’è poco da giocare, in The Town Of Light. E in parte ciò è vero: le interazioni sono ridotte al minimo e, grazie a un sistema di aiuti in game, è quasi impossibile non riuscire ad arrivare ai titoli di coda. Ma ridurre l’esperienza del gioco dei LKA alle mere meccaniche con mouse e tastiera (e casco VR, se ne avete uno) è ingiusto, oltre che riduttivo.

Perché il “gioco” di The Town Of Light è duplice: da un lato c’è la voglia, quasi da giornalista d’inchiesta, di scoprire la “verità”, quella oggettiva, ricostruendo il tutto tramite i documenti e i ricordi di Reneé, raccontati con splendidi disegni animati o meno riuscite sequenze in game, con un motore che riesce a costruire ambienti tanto efficacemente quanto poco convincente è invece sul fronte dei modelli dei personaggi; dall’altra faccia della medaglia, c’è l’immedesimazione con Renée, intelligentissima e lucida nel suo profondo dolore, c’è lo sconforto e la rabbia per i soprusi e le violenze che la poveretta ha subito senza poter davvero ribellarsi. E c’è la sensazione di sgomento nel realizzare che, in passato, ci sono state molte, troppe Renée, colpevoli semplicemente di non saper “stare al mondo”, di non essere considerate utili per la società.

Imparerete ben presto a conoscere questa bambola. Per fortuna non parla.

In un’altalena che oscilla tra momenti di puro orrore e altri di profonda malinconia, i difetti - pur presenti - di The Town Of Light sembrano sparire: la carica emotiva del gioco è così totalizzante, la ricostruzione del manicomio di Volterra certosina e la voglia di scoprire sempre più così forte che sembra quasi si venga trascinati a forza dalla mano di Renée fino ai titoli di coda, ai quali si giunge in circa tre brevi ma intense ore. The Town of Light dura il giusto e, per chi proprio non riesce a fare a meno di veder crescere il proprio contatore di ore su Steam, è possibile vivere alcune porzioni del gioco seguendo percorsi diversi, a seconda della strada che si sceglie nei bivi del gioco.

“Life is a clay urn on the mantle, and I’m shattered on the floor”, recita il branco che sto ascoltando adesso. Ed è proprio così che ti fa sentire The Town of Light. Un gioco non perfetto, certamente, ma che non posso che consigliarvi. E non solo perché sa raccontare con crudezza ed efficacia una storia straziante. Ma anche perché è uno splendida opera che pone i riflettori su un argomento, quello della cura delle malattie psichiatriche, che non si è esaurito certamente con la chiusura dei “manicomi dell’orrore”.

Ho giocato a The Town Of Light su Steam per quasi tre intensissime ore. Sinceramente, non ce l’ho fatta ad affrontare il tutto in un’unica sessione: ero troppo scosso emotivamente da alcune sequenze e ho avuto bisogno di attimi di pausa. Eppure, probabilmente, se voi riuscirete a giocarlo tutto in un solo pomeriggio, avrete tra le mani un’esperienza ancora più forte ed incisiva. Badate che ho detto “pomeriggio”: fossi in voi non oserei giocarlo di sera o notte.