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The Nice Guys: fuori moda, fuori posto; insomma, sempre fuori

Il valore della nostalgia al cinema è un fenomeno polarizzante verso un determinato periodo.

L’effetto diretto è quello di ritrovarsi in una bolla generata da registi cresciuti nello stesso periodo storico che raggiunta una maturità, se non artistica almeno professionale, trovano nella rielaborazione del passato uno sbocco utile per trattare determinate tematiche.

Subliminalmente, in un periodo ci siamo trovati pieni di materiale nostalgico degli anni Cinquanta, da Zemeckis, a Lucas passando per King, che risalendo alle proprie radici tirano fuori una produzione che splende per la sua spontaneità. American graffiti, Ritorno al futuro, Peggy Sue si è sposata, il racconto Il corpo, dal quale poi verrà tratto Stand by me, a tutti gli effetti precursore del capolavoro di quella fase specifica che è It, che allo stesso tempo riflettevano apertamente sulla questione del valore della memoria e della sua naturale alterazione.

“Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni”

Mentre il presente pare salire di marcia per lasciarsi alle spalle la wave anni Ottanta, con Pam e Tommy su Disney+ e The Batman al cinema, possiamo serenamente inaugurare la moda degli anni Novanta, che non mi sento nemmeno di dire sia iniziata adesso, ma diventa più evidente con una produzione di opere che sottopongono il decennio al riesame del grande pubblico; un decennio complicato e per certi versi irrisolto schiacciati tra tensioni millenariste, l’occhio rivolto al futuro ma i piedi piantati nella cultura pop del decennio precedente, pre-globalizzata, che ha contribuito a svezzarci, almeno fino a quella ferita di proiettile chiusa con la polvere da sparo che è stato l’11 settembre.

“Mi parli di questo “internet” di cui tutti parlano”.

Quando il riferimento cambia è come se smettesse di essere rivolto alla nostra percezione del tempo concepita come una scheda forata, con gli anni, i decenni, tutta bella incasellata e facile da separare e dividere per colore e forma, ma non è sempre scontato che gli autori percepiscano quei buchi nel tessuto della realtà come capita a noi, che assorbiamo quella roba filtrata attraverso i loro occhi.

Gli anni Settanta e la nostalgia dei Settanta io non me la ricordo, o almeno, non la ricordo consapevolmente, perché la roba che ho iniziato a fruire senza dovermi sforzare per cogliere i riferimenti inizia con il decennio successivo. E se vi state chiedendo come fa uno del ’91 a cogliere roba riferita agli anni ottanta, chiedete a Fininvest.

Take me down to the paradise city
Where the grass is green and the girls are pretty

Fatto sta che mentre montava la mania degli Ottanta, facciamola coincidere per comodità con l’uscita della prima stagione di Stranger things, Shane Black porta al cinema un film ambientato negli anni Settanta: The nice guys.

Fu un’operazione divertente ed evidentemente divertita.

L’autore che ha contribuito alla riformulazione del poliziesco con la buddy cop comedy Arma letale e poi alla decostruzione dell’action anni ’80 con Last action hero per rimettere in scena la formula che lo ha reso l’autore riconosciuto e riconoscibile che è, non torna agli anni che lo hanno reso famoso ma a quelli, della sua formazione.

Al di là di tutta una serie di scene feticcio quali la ripresa a volo d’uccello sulla città mentre partono i titoli di testa, una macchina che sfonda una casa, una donna nuda morta, la presentazione di un personaggio in vasca da bagno e l’ambientazione prossima al Natale, al centro del film c’è una pellicola scomparsa, un’aspirante attrice introvabile e, ovviamente, la donna morta seminuda di cui sopra, attrice di film per adulti (aka porno).

A completare il giro di ossessioni che sono la sua firma riconoscibile, la passione per l’hard boiled e la coppia di protagonisti male assortita, composta all’occorrenza, in ordine di apparizione, da un Russell Crowe tutto panza e sganassoni, e Ryan Gosling con i baffi, in quella che è ad ora la migliore riproposizione della coppia Bud Spencer e Terence Hill che il cinema americano avrà mai.

C’è qualcosa nell’intuizione di ambientare il racconto negli anni Settanta che, secondo me, ha a che fare con la grana grossa di tutta la faccenda. Per carità, è una grana grossa che adoro, ma che può risultare in evidente discordanza con il sentire del periodo, quel 2016 che evidentemente richiedeva una maggiore raffinatezza per impedire che il film si tramutasse in quel bagno di sangue che fu al botteghino.

Fatto sta che, ancora di più che in Kiss Kiss Bang Bang, Shane Black mette in evidenzia il suo gusto per la battuta greve, per l’alcolismo molesto e il tabagismo senza condanna ancora ammantato di coolness

Tutto il film è caratterizzato da una ruvidezza contenutistica che Black riesce a stemperare solo lavorando su commissione e che, forse, se avesse saputo tenere a bada, lo avrebbe posizionato di diritto insieme a registi che, proprio nella modulazione della battuta greve, hanno fatto cifra stilistica, come Taika Waititi e James Gunn.

Non c’è da stupirsi quindi che, nel mettere in scena un film completamente suo, Black scelga consapevolmente anni che per lui sono stati formativi, potrebbe tranquillamente essere il tipo di film che il Giovane Shane teneva nel cassetto della sua scrivania da una vita, in attesa dell’occasione buona (i soldi fatti con Iron Man 3 ndr) e non è difficile immaginare nella scena di apertura con il ragazzino che recupera la rivista dalla stanza dei suoi genitori una situazione quasi aneddotica di quell’era pre internet quando questa era la modalità per reperire intrattenimento “per adulti”.

Inoltre, nel suo mettere in scena una variazione scapestrata e assolutamente pop di Chinatown, gli anni ’70 sono il periodo ideale e non solo circostanziale: il MacGuffin è tale solo perché Detroit nel panorama dell’industria automobilistica ha ancora quel ruolo rilevante immediatamente prima dell’aumento dei prezzi del petrolio che cambierà radicalmente il settore dell’auto in USA, permettendo alle auto giapponesi, più leggere e meno assetate, di mangiarsi importanti fette del mercato americano.

Scegliere un porno come MacGuffin in un film ambientato ad Hollywood negli anni ‘70 inoltre dà una patina particolare al tutto, uno strano senso di circolarità, per il quale agli occhi del pubblico una cosa è vera solo nel momento in cui un’opera di finzione la denuncia come vera.

Con il senno di poi, è facile far risalire il suo (sorprendente) insuccesso commerciale ad una incapacità del film e quindi dell’autore, di dialogare con il presente, attraverso una formula collaudata ma evidentemente appesantita dal mondo di riferimenti proprio a cui l’autore attinge senza mediazione.

Definirlo un film brutto è impossibile, Black continua ad essere graziato dal dio delle sceneggiature riuscendo ad infilare in bocca ai personaggi una serie di one line assolutamente perfette nelle loro fulminante innaturalezza. Accoppiando queste ad una serie di situazioni, quelle sì, molto buddy comedy anni Ottanta, una certa disinvoltura nel trattare la violenza e un gusto per le coreografie totalmente slapstick, si è ottenuto un film strano e deliziosamente fuori moda.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata agli anni Settanta, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.