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Racconti dall'ospizio #164: Come i Sunset Riders non cavalcherà mai nessuno

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Yeah-heee!!!

Suona così l’urlo fragoroso ad ogni gettone inserito. Lo sprone di un galoppo. Un suono impiantato nel mio cervello e nel mio cuore. Mio e di altri migliaia di giocatori, chiaro. Migliaia di indomiti cowboy, tutti pronti a cavalcare verso l’orizzonte. Dei veri Sunset Riders. E che introduzione pazzesca, quella di Sunset Riders.

Non ricordo la prima volta che giocai a Sunset Riders. Sicuramente non il 1991, l’anno in cui sbarcò nelle sale giochi giapponesi. Presumo fosse il 1996, o giù di lì. Mi stregò. Mi stregò per la sua identità atipica. Perché dovrebbe essere un run ‘n’ gun, uno sparatutto in due dimensioni semplice e diretto, un colpo del nemico e sei a terra. Ma ha quella lentezza nei movimenti dei protagonisti per cui, quando lo vidi nella sala giochi itinerante che si fermava ogni settembre a Turano Lodigiano, paese di zii e nonni, lo percepii come un picchiaduro a scorrimento. Come se lo fosse, ma i personaggi avessero improvvisamente deciso di imbracciare delle armi.

Non so spiegarvi bene questa sensazione, non mi interessa farlo. Chi doveva capire ha capito. Sunset Riders, ragazzi. Quattro personaggi: Steve, Billy, Bob e Cormano. Cormano, che a noi lombardi fa ridere più che ad altri. Ed è obbligatorio scegliere lui, perché ha la barba, ha il fucilone, quindi spara meglio. Sì, anche Bob, ma Cormano è vestito di rosa. Un rosa sgargiante nel bel mezzo del selvaggio west.

Ma poi i suoni. I suoni e le musiche di una Konami che signora mia, a quei tempi saltava i fossi per il lungo. Il bacio delle prostitute quando entri nei saloon a prendere il bonus. Gli “Ouh!” dei nemici comuni quando muoiono. È tutto così perfetto.

Solitamente arrivo con un gettone a metà gioco, al boss Smith Bros. che, come si intuisce dal nome, sono due. Lì dipende, a volte con uno resisto, se me la gioco bene coi salti su e giù dal lampadario. Tutto sommato, non è difficile imparare ad arrivare a quel punto con un solo credito, Konami ha deciso di iniziare a rubarti i soldi solo dopo quel semi-epilogo. Sconfitti i due villanzoni, si scopre infatti che un riccone del luogo, un certo Richard Rose, se la comanda. Ha tre sottoposti, uno più maledetto dell’altro. Soprattutto Chief Scalp’em, temibile lanciatore di coltelli nativo americano. Eh, sì, sopravvivere al livello degli indiani è praticamente follia. Così come al mezzo delirio della fortezza finale, soprattutto nelle sessioni in salita e discesa.

Richard Rose, boss finale mangia-gettoni. Ma gli si perdona tutto per lo stile. Inanzitutto, a metà scontro, perde una placca di metallo nascosta sotto i vestiti, e Sergio Leone fa l’OK. E col colpo finale, la rosa che ha al petto vola via, spezzandosi al vento.

A far innamorare di Sunset Riders basta comunque il primo livello, col grasso e butterato simon Greedwell, un uomo con l’avidità nel cognome e che prima di spirare proferisce: “Bury me with my money”. Che per anni è stata malintesa da me e amici con “Marry me with my money”. Che forse è pure meglio, nel delirio. Lo si incontra, fra l’altro, dopo aver superato un ponticello in fiamme ed essere entrati nel suo ranch, a patto di sopravvivere alla mandria di mucche che ci corre incontro, da sorpassare correndoci sopra come forsennati. Capolavoro.

Konami, ma nel tripudio di vecchi arcade che continuano ad arrivare sulle console di attuale generazione, non è il caso di far tornare questo benedetto Sunset Riders? Facci cavalcare ancora, e ancora, e ancora…

Questo articolo fa parte della Cover Story più veloce del West, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.