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Spoiler Zone #2 - Dark Souls: hardcore per scelta

Una rubrica in cui parliamo dei giochi “a posteriori”, senza farci alcun problema di spoiler. Insomma, se non avete ancora giocato ciò di cui si parla, statene alla larga, perché qui potremmo svelarvi ciò che non volete sapere!

Nonostante in molti continuino a dipingerlo come un'esperienza unica, riconosco di non aver mai compreso il fascino di King's Field, primo titolo di From Software con cui venni in contatto nel lontano 1995. Il cielo mi è testimone: ho tentato più volte, armato di pazienza e buona volontà, ma non sono mai riuscito ad entrare in sintonia con quel gioco, una sfida troppo improba per i miei standard. La lentezza nei movimenti, unita all'instabile prospettiva in prima persona, un incubo per chi soffre di chinetosi, il sistema di combattimento letargico e l'interfaccia utente approssimativa sono stati i principali motivi che mi hanno portato a sventolare anzitempo bandiera bianca. A posteriori mi accorgo che molti degli elementi di quel ruvido gioco di ruolo rivivono in Dark Souls, un titolo che ritengo a dir poco imprescindibile, una vera pietra miliare.

Progenitore ed erede spirituale sono accomunati dalla totale assenza di didascalismo, anche se il giovane rampollo dimostra una maggior apertura verso l'utente, senza per questo compromettere la sua integrità. Il tutorial, perfettamente inserito nel contesto e non fastidiosa appendice, aiuta a comprendere i rudimenti del sistema di combattimento e poco altro, lasciando al giocatore l'incombenza e il piacere della scoperta delle restanti meccaniche ludiche. Dark Souls non si è mai nascosto dietro a false ipocrisie, è consapevole della nomea del suo predecessore e, senza timori reverenziali, lancia immediatamente il guanto di sfida. Al cospetto del primo enorme demone, scontro che avviene dopo pochi minuti di gioco, ci si sente atterriti, sconvolti, come se vittime di un o scherzo crudele. Ridotti in poltiglia dal bestio, dopo una serie di tentativi si ottiene una sofferta e meritata vittoria, una gioia che dura ben poco, quando ci si rende conto che il peggio deve ancora venire. Dark Souls è un viaggio nelle viscere della malvagità, un universo spettrale, marcio e lugubre, eppure quel mondo non crea alcun tipo di repulsione, stimola la curiosità nel voler scoprire fin dove From Software abbia voluto spingersi nella rappresentazione del dolore e della sofferenza.

L'incredibile atmosfera si concretizza in una serie di scenari da incubo, sulla cui descrizione mi soffermo brevemente. Si è detto e scritto molto, e probabilmente anche quanto sto digitando ora a schermo è superfluo, tuttavia ammetto di essere in difficoltà nel cercare le parole che possano rendere piena giustizia alla gamma di emozioni che ho provato joypad alla mano. La putrida genia di Blighttown, esseri deformi dalla pelle purulenta e costretti a vivere in una paludosa regione sotterranea, è solo un antipasto della discesa agli inferi, dove le speranze crollano al cospetto di un mondo degno di un girone dantesco. Fiumi di lava incandescenti sorvegliati da capre antropomorfe, versioni mignon dello spietato carnefice che tanto ha fatto penare chiunque ne abbia incrociato lo sguardo, si alternano a uomini che supplicano per una fine rapida delle loro sofferenze, condannati a strisciare da un corpo infestato da una serie di enormi parassiti. Ad avvenuto decesso, quando questi cessano le loro pene, decine di vermi fuoriescono in un'esplosione di sangue dalla carcassa, puntando una nuova preda. A tale orrore si contrappone la maestosità di Anor Londo, palazzo reale dove l'opulenza e lo sfarzo la fanno da padrone, uno specchietto per le allodole, poco più di un paravento delle forze oscure.

In molti hanno definito Dark Souls “un gioco per masochisti”, un punto di vista che non condivido minimamente, anzi: il gioco From Software è leale, pretende impegno e dedizione, ma ripaga l'utente di ogni sforzo profuso. Chiunque cerchi scappatoie come glitch, guide o gabole varie, alla fine penalizza solo la sua esperienza ludica e svilisce tutta l'epopea dello sviluppatore nipponico. C'è una sorta di filosofia alla base, una lezione di vita che nasce dall'esigenza di imparare da ogni errore, la necessità di riflettere prima di compiere una determinata azione per essere pronti ad affrontarne le conseguenze. Con il passare delle ore si inizia a diffidare di tutto, ci si muove con circospezione verso uno scrigno consapevoli che potrebbe essere una trappola, si evita uno scontro all'arma bianca quando il passaggio al successivo livello d'esperienza è prossimo, si torna al falò per recuperare le forze prima di ricominciare il cammino. Non si ha mai idea di cosa la nebbia stia nascondendo, dietro quel portale potrebbe esserci un demone corpulento o un punto di ristoro, è necessario gettare il cuore oltre l'ostacolo e scoprirlo.

Giunto alla prima visione dei titoli di coda dopo circa ottanta ore, alcune delle quali spese nel soddisfacente potenziamento di gran parte dell'armamentario, mi sono reso conto di aver solo scalfito la superficie di Dark Souls e ho compreso ulteriormente la sua magnificenza. Come le anime perdute, condannate per l'eternità in quel limbo, ho deciso di continuare l'avventura dall'inizio, spinto dalla curiosità di scoprire tutti i segreti nascosti fra una riga di codice e l'altra. La lista di incantesimi, miracoli, anelli, armi da forgiare e personaggi con cui interagire è lunga, al punto che è impossibile completare Dark Souls al termine della prima tornata. Ho ancora sulla coscienza il povero Sigmeyer di Catarina, cavaliere deriso per la sua armatura a forma di cipolla, costretto al suicidio pur di non vivere ulteriormente con l'onta di essere un disonore per la sua stirpe. Voglio ancora salvare Solaire di Astora, ribattezzato “solarino” per l'effigie presente sul suo petto, da quel parassita che l'ha condotto alla pazzia, costringendomi allo scontro con lui.

E lo voglio ribadire nuovamente: diffidate di chi ve lo sconsiglia, Dark Souls si ama, non si discute. From Software ha avuto il coraggio di rischiare, proponendo un gioco che non scende a compromessi con niente e nessuno, un atteggiamento di fronte al quale mi tolgo il cappello. Ce ne fossero di sviluppatori di questo calibro al giorno d'oggi.