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Seven ha dato un volto al male e una definizione al mondo

Se nel 1995 qualcuno mi avesse chiesto di indicare una figura che rappresentasse il male assoluto, la mia mente neo adolescenziale avrebbe probabilmente elaborato una risposta tipo “Il Sacerdote del Grande Tempio” o la “Belva Umana” della sempreverde commedia Fracchia la Belva Umana con l’indimenticabile Paolo Villaggio. Se qualcuno mi avesse chiesto se il mondo fosse un bel posto in cui vivere, gli avrei risposto di sì, senza pensarci neanche un secondo. All’epoca non guardavo i telegiornali, non ero informato sui fatti di cronaca, non conoscevo molto bene ciò che “di importante” accadeva nel mondo.

Cosa che invece facevo abitualmente all’epoca era leggere Ciak, mensile dedicato esclusivamente al cinema, nato una decina di anni prima. In un numero di fine anno, che dovrei ancora avere in qualche scatolone in cantina ma che non ho né tempo né voglia di cercare, fu pubblicata un’anteprima di Seven, thriller campione d’incassi nella madre patria USA; film che pare avesse sconvolto il pubblico ed estasiato la critica specializzata. Ovviamente tutto questo scalpore aveva destato la mia curiosità, e volevo vedere il film. Vederlo al cinema sarebbe stato un problema, in quanto vietato ai minori di diciotto anni, e non si poteva neanche tentare l’entrata dalla porta di servizio, come abitualmente si vedeva fare nei film americani. Mi ero rassegnato ad aspettare di poterlo noleggiare o, nella peggiore delle ipotesi, di vederlo nel ciclo I Filmissimi di Canale 5, censurato e falcidiato dalla pubblicità. Invece, grazie a un amico benestante che poteva permettersi l’abbonamento a Tele+, circa un anno dopo riuscii a vederlo registrato su VHS.

Già dopo quella prima visione, oltre al famoso final twist ormai impresso nella memoria collettiva, Seven sembrava essere già un gradino sopra il thriller medio americano, un film mille volte più coerente e riuscito di un qualunque Basic Instinct dell’epoca. Nel corso del tempo, Seven è diventato uno di quei dieci o dodici film che vedo almeno una volta all’anno, e ogni volta cerco di trovarci almeno un difetto, qualcosa che non funzioni, ma fila sempre tutto così liscio che, anche ventisette anni dopo, fa impallidire qualunque tentativo di imitazione.

Una New York marcia e decadente, perennemente sotto la pioggia, è teatro di un brutale omicidio. Il detective William Somerset sta contando i giorni che lo separano dalla pensione. Ne ha le tasche piene di quella città, ha visto cose talmente orribili nel suo lavoro che desidera solo ritirarsi e dedicarsi alla ristrutturazione della casa, e non vuole avere come ultimo incarico un caso destinato a protrarsi a lungo. David Mills, collega più giovane appena giunto in città, ha voglia di mettersi in luce e non ha paura di affrontare il caso, che pensa sia il solito gesto compiuto da uno squilibrato. I delitti diventano una serie, ispirata ai celebri sette peccati capitali. Somerset, uomo navigato e di una certa cultura, sa che non si tratta del solito maniaco e che gli omicidi fanno parte di un disegno preciso. Mills fatica a comprendere il quadro generale e capisce che ha bisogno di Somerset, e fra i due si instaura un rapporto di reciproca stima, pur essendo due persone fondamentalmente diverse anche nel privato. Somerset ha rinunciato volontariamente ad avere una famiglia ed è rimasto solo, rimpiangendo la scelta passata.

Mills ha una moglie giovane e bella, Tracy, ma lei è infelice, odia la nuova città dove ha accettato di trasferirsi solo per amore del marito, rinunciando anche al suo lavoro di insegnante. Somerset instaura con la coppia un rapporto quasi paterno, cercando di contenere l’impulsività di David e spingerlo ad agire in maniera più calma e ragionata e, nello stesso tempo, di aiutare Tracy, che aspetta un bambino e non è pronta a fare la madre in un mondo tanto ostile.

La figura di Somerset diventa sempre più centrale di scena in scena: sarà lui infatti a trovare l’escamotage per rintracciare l’assassino, dopo che egli stesso aveva capito prima di tutti che conoscere le opere letterarie di Dante Alighieri e John Milton era fondamentale per la comprensione del piano ordito dall’omicida. L’eterogenea coppia di detective si avvicina alla verità in un crescendo di violenza e tensione, un omicidio dopo l’altro, fino a quando l’assassino, John Doe, si consegna loro spontaneamente, in modo da poter completare il suo diabolico piano con quell’intensa sequenza finale all’aperto.

Riguardando oggi il film, con gli occhi dell’adulto consapevole e non con quelli dell’adolescente semi-spensierato, mi rendo conto di quanto Seven sia stato capace di tratteggiare così efficacemente la natura umana. Siamo stati tutti prima Mills e poi Somerset. Prima giovani e impulsivi, magari con qualche timido ideale, senza renderci conto di ciò che accadeva intorno a noi, e poi più maturi e disillusi, accusando anche una certa stanchezza e indolenza nei confronti di un mondo che ogni giorno o quasi mette alla prova la nostra capacità di andare avanti.

Nella scena in cui i due detective sono seduti al bar, Somerset delinea perfettamente questo concetto. “L’apatia è una soluzione. È più facile stordirsi con qualche droga che affrontare la vita, è più facile rubare qualcosa che guadagnarsela, è più facile picchiare un figlio che educarlo”.

In una società come quella attuale, dove il furbo viene premiato e l’onesto punito, dove il divario economico e sociale si fa sempre più profondo permettendo al ricco di continuare a essere ricco e condannando il povero a restare povero, producendone anche di più dopo aver di fatto eliminato la classe media, e dove la gente perde la bussola se parcheggi l’auto nel posto che avevano visto prima loro, come si fa a non concordare con Somerset?

John Doe, invece, rappresenta la perfetta incarnazione del male assoluto. Uomo senza passato e senza identità, lucido nella sua follia, meticoloso nei suoi crimini, spietato nel condannare la società, con quel tono pacato nel parlare che mette forse più brividi del suo asettico appartamento e dei suoi allucinati diari. Vedere John Doe oggi mi inquieta ancora di più. In primo luogo perché leggendo certi commenti odierni sui social e guardando i servizi di cronaca del telegiornale, mi viene il dubbio che uno o più John Doe esistano davvero e siano lì fuori, da qualche parte. Il secondo perché mi rendo conto che il suo additare peccatori a destra e a manca non era poi così errato, fermo restando che se uno vuol dedicare la sua vita al denaro o avere come priorità la bellezza esteriore, saranno anche fatti suoi, soprattutto se non arreca danno ad altri.

Seven è diventato rapidamente un cult ed è probabilmente uno dei film più rappresentativi degli anni novanta. Come scrivevo in precedenza, altre pellicole basate sul binomio (o trinomio) “detective alla caccia del serial killer” hanno provato a replicare la formula della pellicola di David Fincher, da vere e proprie spudorate imitazioni come Resurrection (dove un Cristopher Lambert dalla carriera ancora dignitosa indagava su di un serial killer che uccide gente con nomi di apostoli per ricomporre, ehm, il corpo di Gesù prima di Pasqua) fino al recente Fino all’ultimo indizio, senza riuscire a costruire lo stesso meccanismo di discesa agli inferi dei detective nella mente oscura e malata del serial killer.

Dopo un epilogo amarissimo dove bene e male finiscono per annullarsi a vicenda, il film si chiude con una frase pronunciata da Somerset: «Hemingway una volta ha scritto: “il mondo è un bel posto e vale la pena di lottare per esso”. Condivido la seconda parte». Nel mio piccolo, la condivido anch’io. Anche se ci credo sempre di meno.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai detective, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.