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Revenge è più o meno come Il corvo (a parte che qui la tipa se la sbriga da sola)

Ci sono autori che alla loro prima esperienza con un lungometraggio si fanno prendere dall’ansia da prestazione e decidono di strafare, finendo col perdere la bussola. Non è il caso della regista francese Coralie Fargeat, che dopo aver lavorato a due cortometraggi e a una miniserie TV, per il suo debutto “grosso” ha scelto di mostrare una storia semplice: un inseguimento. Per di più ambientandolo in un unico ambiente, il deserto, e con appena quattro personaggi in ballo. Volendo, potrei riassumere la trama del film in una riga e chiacchierare di quello che ho visto per ore, a dimostrazione del fatto che se un cineasta ha idee e capacità, può fare tanto con poco senza rinunciare alla sua visione.

Proiettato per la prima volta al Toronto International Film Festival del 2017, e da lì lanciato in Francia e negli Stati Uniti, per poi raggiungere l’Italia proprio in questi giorni su distribuzione di Midnight Factory (la divisione horror/thriller di Koch Media), Revenge è un thriller d’azione che si inserisce nel solco dei cosiddetti rape & revenge. Il racconto parte quando Jen (Matilda Lutz), una mondana frequentatrice dell’alta società, accetta di passare un weekend in una villa in mezzo al deserto assieme al suo amante, Richard (Kevin Janssens) e due amici di lui, Stan (Vincent Colombe) e Dimitri (Guillaume Bouchède).

L’occasione per il ritrovo è una battuta di caccia, ma c’è sotto anche la voglia di fare un po’ di bisboccia. E in effetti la prima sera il quartetto si diverte, balla, beve e tira tardi. Le cose sembrerebbero quasi filare lisce, solo che in questo genere di film le acque calme non durano mai, e ben presto Jen diventa oggetto di attenzioni violente da parte di uno dei tre viscidoni. Da lì è un attimo: la situazione precipita e la vacanzina si trasforma in una violentissima battuta di caccia a ruoli alternati fra i tre uomini e la ragazza.

A livello stilistico, il film è sospeso tra il pulp – per ripescare una parola che non usavo da anni – e la rambata sborona, con i personaggi pompati che recitano sopra le righe e si sparano pose. Coralie Fargeat riprende tutto con luci e colori sparatissimi, e manco ci prova a inseguire un'estetica fighetta. Anzi, fila esattamente nella direzione opposta; abbraccia l’eccesso, quasi sfiora il pacchiano ma resta clamorosamente in equilibrio. Inoltre, in termini di racconto, si gioca alla perfezione tutti i presupposti di partenza: il deserto, la casa e la battuta di caccia (che fornisce il pretesto per schierare armi e veicoli paramilitari).

Revenge non dà molte spiegazioni. La backstory dei personaggi è pressoché inesistente, cosa che rende ancora più inquietante la loro progressiva deriva. In particolare, dopo aver rotto gli argini, i tre uomini vengo spinti lungo un percorso a metà fra lo svelamento e la mutazione, che li porterà ad abbracciare i propri istinti più brutali.

“Fui più bestia che uomo!”

Da questa meccanica non è esente nemmeno Jen, per quanto moralmente nel giusto. Con gusto e intelligenza, Coralie Fargeat - che del film ha curato anche la sceneggiatura - evita il cliché della fanciulla indifesa e porta in scena una protagonista sexy e disinvolta. Una ragazza che, non intuendo la brutalità dei suoi ospiti, gioca a sedurli; che “se la va a cercare”, come direbbe qualche testa di minchia. Ecco, proprio questa caratterizzazione priva di manfrine e moralismi ma, anzi, spigolosa, è forse una fra le trovate migliori del film, sia per la dimensione “politica” che infila, ma soprattutto per come serve l'evoluzione del personaggio.

Attraverso il classico "rito di morte e resurrezione", agevolato in queso caso da una componente sciamanica a base di peyote, grotte e animali guida (siamo pur sempre in mezzo al deserto), Jen finisce con l’abbandonare i panni della ragazza viziata e mondana per trasformarsi in una vera e propria dea della guerra dallo smalto sbeccato, nonché straordinariamente simile alla Quiet di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain.

La meccanica narrativa è quella tipica del genere di vendetta, e del resto il film non fa nulla per nascondere le sue fonti: su tutte, Il corvo di Alex Proyas. Come spesso succede, a fare la differenza non è tanto il cosa, ma il come.

Da mondana a dea della morte, è un attimo.

Dietro a Revenge c’è una idea di regia chiara. Come ho già accennato, la fotografia ha i toni e i colori spinti di un Baby Driver, per fare un esempio recente. Coralie Fargeat se la gioca alla grande con le ombre e con i primissimi piani sbilenchi alla Sergio leone, alternandoli agli spazi aperti del deserto attraverso un montaggio solido e asciutto. Nonostante l’aspetto un po’ cheap di certe sequenze, la messa in scena è piuttosto ficcante e, assieme al sound design, tira su una buona atmosfera generale.

Detto questo, la trovata più sovversiva della regista francese si consuma sul piano spaziale: mi riferisco alla scelta di usare un ambiente aperto per girare un film chiuso e claustrofobico. Volendo lanciarsi in analogie videoludiche, il deserto di Revenge ricorda per concetto la giungla di Metal Gear Solid 3: Snake Eater, all’apparenza priva di regole ma in verità definita da un level design molto preciso. Allo stesso modo, sotto le distese di sabbia bruciate dal sole del film, si nasconde un’intelaiatura con delle geometrie nette, nel cui punto di fuga si trova proprio la casa da cui prende le mosse tutta la vicenda. La stessa villetta, unico ambiente umano in mezzo al deserto, rappresenta la via di fuga verso il mondo esterno e ospita una fra le sequenze più tese di tutto il film.

Poi, per carità, Revenge non è impeccabile: la grana alle volte è un po’ grossa, i dialoghi tutto sommato sono tagliati giù – anche contestualmente al genere – e il cast, protagonista a parte, non è indimenticabile. Eppure, il film della Fargeat è sincero, fisico, viscerale - nel senso che volano viscere da tutte le parti - e a conti fatti mi è piaciuto davvero un sacco (tanto per cambiare).

Ho avuto la possibilità di guardare Revenge in anteprima grazie a una proiezione stampa organizzata da Midnight Factory, alla quale noialtri di Outcast siamo stati gentilmente invitati. Il doppiaggio in lingua italiana rema un po’ contro e mette in evidenza i difetti della recitazione, ma in fondo – oh - quando mai non lo fa?

La locandina del film, per non farci mancare nulla.