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Racconti dall’ospizio #11 - La coscienza di Slalom

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

L’uomo di Tarragona mi saluta, nella sua ultima mail, con una domanda che non vuole nemmeno davvero una risposta: “but why is this game so important to you?”. Ma questo succede solo adesso, in corrispondenza dei XXII Giochi Olimpici Invernali, Sochi 2014. La storia che dovrei raccontargli è troppo lunga, e comincia esattamente trent’anni fa. Una storia semplice, a dire il vero, che si compone di pochi elementi, come un puzzle da una manciata di pezzi, che però si rendono disponibili poco a poco, con una lentezza quasi inumana, lungo l’arco di sei lustri: la lentezza che forgia i miti. Un mito, in questo caso, ad personam, perché ne sono sostanzialmente l’unico custode al mondo.

È la storia di un gioco di sci sviluppato da HAL Laboratory e pubblicato da Commodore nel 1983.

Trent’anni fa. XIV Giochi Olimpici Invernali. Sarajevo 1984. Ero nel mio decimo anno d’età e di colpo manifestai un inaspettato interesse per lo sport. O almeno così poteva sembrare all’occhio genitoriale. In realtà, la fascinazione che mi ammaliava era tutta per il Grande Evento Mediatico, una categoria a cui avrei ascritto, fino a quel punto, al massimo le ultime puntate dei miei cartoni preferiti. E invece di colpo la televisione, gli adulti, i compagni di scuola, tutti a parlare, con differenti gradi di consapevolezza, di questo disgelo tra USA e URSS nel nome dello sci, del pattinaggio, dello slittino e della neve. La Yugoslavia, reginetta di carta dei Paesi non allineati, si trovava ad ospitare la più grande festa sportiva dell’inverno. Niente più guerre atomiche, facciamoci una sciata insieme, competiamo per il medagliere e tutto andrà bene! Si respirava un’atmosfera di buoni sentimenti, cavalcata con efficacia dai media. Nella mia Trieste solo vento freddo e secco, quell’inverno. Ma il televisore era stracolmo della neve più bianca e più buona che si potesse immaginare.

A volte, l’infanzia genera sovrapposizioni di eventi che portano a dei veri e propri sovraccarichi di gioia, una gioia feroce e cristallina come i bambini. E così, mentre tutti esultavamo per l’incredibile oro nello slalom speciale di Paoletta Magoni, successe qualcosa che avrebbe cambiato la mia vita per sempre. L’Ingegnere, il padre di una mia compagna di classe, si trovò tra le mani un Commodore 64. Era il febbraio del 1984. Pochissime persone avevano in casa un home computer. Tante console, quello sì, perché alla fin fine il grande crash della storia dei videogame del 1983, in Italia, è come se non fosse manco esistito. Ma home computer no. Il brivido di strumenti professionali, roba da fratelli maggiori, da centri di calcolo, da pubblicità di prodotti troppo costosi. Ma all’Ingegnere l’avevano regalato. Glie l’aveva dato la SIP, la società per cui lavorava, come strumento di ricerca e sviluppo. O così almeno ce la vendette lui. Magari, da nerd sfondato quale era, l’aveva semplicemente preso e portato a casa, ciao. Fatto sta che un Commodore 64 era là, a casa della mia compagnuccia Mirella, a due chilometri in linea d’aria da casa mia, ne sentivo la presenza fisica, guardavo dalla finestra giù per il colle a quella piccola villetta e mi pareva di poter sezionare la casa, resa trasparente, in fettine wireframe verdognole su sfondo nero, fino a vedere quel morboso oggetto del desiderio.

E così un giorno sei a casa tua a festeggiare con improvvisato amor patrio la bella storia di una ragazza italiana “normale” che vince un oro olimpico contro ogni aspettativa, e il giorno dopo sei a fare merenda da Mirella, e lei vorrebbe giocare un po’ a nascondino e un po’ col Commodore 64, ma è una bambina intelligente, sa che per tenere buono l’ospite il nascondino lo si può fare solo durante i caricamenti, mentre lo schermo si fa azzurro nella stanza sempre più buia, perché il cielo fuori scolora che è ancora presto e la bora mugghia e ulula gigantesca, comprimendo tutti dentro le loro casette e le loro piccole vite.

E tu hai ancora la testa e lo schermo televisivo pieni della neve di Sarajevo, e ti immagini gli scarponi ai piedi, proprio tu, che l’anno prima ti sei rotto la gamba sciando ma era l’anno prima, non c’era stata Sarajevo, non c’era stata Paoletta Magoni. E non c’erano stati il Commodore 64 e L’Ingegnere, che al crepuscolo rientrò con in mano, trionfante, una nuova cassetta pirata. Non era uno da BBS, ma qualche sottoposto smanettone, in ufficio, lo trattava decisamente bene e gli passava del software mica male davvero. Classici giochi piratati dell’epoca: senza troppe invasioni dei cracker a video, caricamento lento velocizzato dal leggendario Turbo Tape 64 di Stephan Senz da Friburgo. Pur passando dalle BBS tedesche, era quasi tutta roba americana, giochi Atarisoft, quindi Donkey Kong, Pole Position, Jungle Hunt, l’incredibile beta del mai pubblicato – su 64 - Mario Bros. Naturalmente c’erano anche tanti giochi made in Commodore. E qui la questione si ingarbugliava. Perché spesso, tra copyright vari, saltavano fuori il marchio HAL e il marchio Commodore Electronics Japan. La visione di quel “Japan” mi faceva esplodere il cuore. I miei amati cartoni, certo, ma non solo: i giochi da bar del campeggio, gli “schiacciapensieri” Nintendo.

Esplosioni cervellari.

Ed eccolo là. Nella nuova cassetta, c’era il gioco di sci più bello che io avessi mai visto. Meglio di quello dell’Intellivision, addirittura. 1983, Commodore Elec. Ltd and HAL Laboratory, Japan. Aveva tutta l’urgenza e la spietatezza dei coin-op, ma non servivano monete da duecento lire. Aveva un layout visivo minimale ma molto definito, con una palette ridotta quasi sempre a bianco, nero, verde, rosso e blu. Aveva un sistema di combo per chi fosse stato tanto bravo da centrare più porte in sequenza. Aveva una colonna sonora potente che usava i tre canali del chip audio SID del 64 come mai avevo sentito. Aveva lo sci, cazzo, la disciplina degli eroi e della pace nel mondo, e la testa e lo schermo televisivo sono sempre più pieni di neve. Aveva tutto, quel gioco.

Tranne un nome.

Niente schermata dei titoli, sostituita da una spataffiata di testo atta a fornire le istruzioni d’uso a un gioco che difficilmente ne ha bisogno. Il computer, come FOUND su nastro, dà SKI RACE, ma nel gioco vero e proprio non c’è nome alcuno. Bizzarro. Addirittura, sulle pagine dei record dei lettori di Videogiochi dell’Editoriale Jackson, era indicato con due nomi distinti (Ski e Ski Race), ma i valori numerici dei due record non davano adito a incertezze: era lo stesso gioco con due nomi piratati.

Mi raccomando il joystick.

Quando, un anno e passa più tardi, ebbi anch’io il mio 64, cercai presso i rivenditori Commodore della mia città la versione originale del gioco (fu la prima volta che, in segno di apprezzamento di un software, sentii che era importante acquistare l’originale come autentico imperativo morale), cominciai a intuire che qualcosa non quadrava. Le cartucce Commodore erano comunissime, dove vendevano un 64 avresti trovato sicuramente Jupiter Lander, Radar Rat Race, Le Mans e compagnia bella (incidentalmente tutti giochi creati in Giappone da HAL, ben prima che suggellasse il suo patto con Nintendo, ma con Satoru Iwata già a programmare e produrre). Ma lo sci non esisteva. Non ne avevano mai sentito parlare. Non era nei listini della Commodore italiana. “Magari è stato pubblicato solo all’estero”. Magari. Che fastidio, però. Altro strano indizio: gli slot della vanity board, appena avviato il gioco, segnano tutti lo stesso nome, MAX. Il nome del pirata? Più probabilmente, un chiaro riferimento all’appendice A del manuale del Commodore 64, pagina 109, che recita:

 “Il Commodore 64 consente inoltre di godersi tutto il divertimento e l’eccitazione creati dai giochi MAX in quanto le due macchine usano cartucce completamente compatibili”.

Manco a dirlo, nessuno in Italia aveva idea di cosa fosse questo MAX, sicuramente manco l’anonimo traduttore del manuale d’uso. Ma siccome la frase incriminata appariva sul manuale americano, andava tradotto e via.

Momenti di gloria.

Mi feci un po’ di copie della cassettina con il gioco dello sci. Così, anche se se ne fossero smagnetizzate un paio, almeno una copia sarebbe sopravvissuta. Per sempre. O forse no? In cuor mio, speravo che un giorno avrei saputo. Perché oramai il gioco si era trasformato in un meta-gioco di conoscenza, in una sfida personale per il conseguimento della verità. Ma cosa avrebbe potuto dare una svolta alla mia detective story, se intanto gli anni passavano, i computer invecchiavano e l’interesse del mondo si spostava dagli 8 ai 16 ai 32 bit? Ero spacciato.

A parte per un piccolissimo dettaglio: Internet.

La mia prima giornata sul World Wide Web, sul finire del 1995, mi vide cercare affannosamente una serie di informazioni cruciali. Se esistessero emulatori su PC come ne avevo visti su Amiga. Chi fosse il figo che cantava Jeeg Robot d’Acciaio. La lista delle canzoni scritte da Lucio Battisti per altri interpreti. Che fine avesse fatto Matthew Smith. E, potete scommetterci, cosa si sapesse del gioco di sci senza nome.

Il tempo mi aveva caricato di un fardello cupo e funesto che mi spingeva a cercarlo: la guerra in Bosnia ed Erzegovina, che finì proprio a dicembre di quell’anno. Per stupido che sia, cercavo un simbolo che mi riportasse a quello schermo pieno di neve del 1984, a un’epoca in cui Sarajevo era solo mondanità sportiva, pace, luce bianca d’inverno. Puerile, sciagurato, ipocrita. Una fuga escapistica a base di una bislacca associazione di idee: un gioco giapponese per viaggiare nel tempo verso un’epoca in cui ci si poteva illudere che la natura umana lasciasse qualche spiraglio di speranza. È di fronte alla morte che ci creiamo i nostri dei, le nostre religioni.

Piano piano cominciai a racimolare informazioni. Non direttamente sul gioco, però, che continuava ad esistere come un fantasma: se ne trovavano in rete versioni pirata a bizzeffe, apparentemente tutte identiche, se non all’occhio esperto/malato, ma continuavano a mancare prove concrete dell’esistenza del gioco in qualsivoglia listino Commodore ufficiale, non importa di quale angolo del mondo. Cruciale fu però una paginetta che raccontava la storia degli home computer, a sua volta ormai persa nella débâcle di Geocities.

Là, per la prima volta, appresi dell’esistenza della MAX Machine, o MAX, o Ultimax che dir si voglia: una rarissima versione del Commodore 64 uscita soltanto in Giappone, schiacciata senza pietà dai PC NEC e dal nascente standard MSX. Il povero MAX era peraltro un aborto di 64, con gran parte delle sue feature hardware ma carente proprio in merito alla fondamentale RAM: 2.5K! Come costruire una Ferrari stupenda e metterle un serbatoio da dieci litri, o giù di lì. Era impossibile farci molto, con MAX, privo anche di una porta floppy e tarato da una tastiera che quella dello ZX Spectrum in confronto era il paradiso del dattilografo. In pratica, ci si poteva tirar fuori qualcosa solo usando le cartucce. E così Commodore commissionò a HAL, già alacremente all’opera su Vic 20, tutta la libreria di giochi su cart per MAX o quasi. Uno sforzo non vano: MAX morì sul nascere ma tutti quei giochi dall’elegante design nipponico finirono col costituire la dotazione iniziale del 64 in Occidente. O i piani di Commodore erano in verità quelli di buttare sul mercato nostrano anche MAX, ma – per una volta – ebbero la prontezza di lasciar perdere. Non riuscirono evidentemente a fermare le rotative che stamparono il manuale del 64, con la frase incriminata di cui sopra.

Però attenzione: per quanto fossi a quel punto sicuro della correlazione tra il gioco di sci e il MAX, restava inspiegabile che non figurasse da nessuna parte. Ancora nel 2000 era decisamente traumatico muoversi su siti giapponesi, con strumenti di traduzione automatica talmente primitivi da ispirare, probabilmente, la Coppola per quel suo film. Imparai la scrittura dei katakana per cercare di scoprire qualcosa in più, ma ero perso e incazzato lo stesso. Più mi avvicinavo alla soluzione e più venivo respinto indietro dalla più banale delle torture: la mancanza di informazioni.

Verso il 2005, però, qualcosa si smosse. Entrai in contatto con un collezionista inglese, Mat Allen, che aveva praticamente tutte le cartucce conosciute per 64, Vic e MAX. Gli scrissi, elencando tutte le mie scoperte e supposizioni. Analizzando le copie pirata del gioco, Mat concluse che sì, la particolare struttura del codice era perfettamente compatibile con quella delle cartucce MAX, costrette a interfacciarsi con un hardware ben più povero del 64. Messagli la pulce nell’orecchio, lo persi di vista per qualche anno finché, nel 2010, tornando sul suo sito…

Il sacro Graal.

L’aveva trovata. Aveva trovato la cartuccia. Del gioco. Dello sci. Che si chiamava, senza né frizzi né lazzi, SLALOM. Semplicemente Slalom. Che sì, era una cartuccia tra le più rare di uno degli home computer più rari ed elusivi. Dev’essere stato un caso fortuito che, nel 1984, un pirata sia riuscito a metterci le mani sopra, probabilmente tramite qualche gola profonda in casa Commodore. Non sapremo probabilmente mai come sia successo, ma insomma, era già eccitante e sconcertante che la cartuccia di Slalom alla fine si fosse palesata su Yahoo Auctions, che è un po’ l’eBay nipponico, e che un facoltoso britannico fosse stato così abile da accaparrarsela. Tramite un prestanome locale, peraltro. Non semplice. Fuori dalla mia portata. Volevo anch’io una cartuccia di Slalom. Più di qualsiasi altra cartuccia. Avrei dato qualsiasi cosa. Ma la verità è che non puoi offrire niente a un collezionista che ha già tutto. Mat Allen non era particolarmente interessato a Slalom: è solo che era il pezzo che chiudeva la sua collezione di cartucce MAX, ergo non se ne sarebbe mai privato. Oltre al danno la beffa: mi disse che solo pochi mesi prima si era ritrovato con due cartucce di Slalom e ne aveva barattata una per chissà quali altre oscure rarità. Collezionisti! Io non sono un collezionista. Io cercavo solo il mio personale Graal ricolmo di neve con cui purificare la mia esistenza e celebrare la purezza dell’infanzia. In effetti ho un certo coraggio a dire che i matti sono i collezionisti. Matto ero e sono io tanto quanto loro.

Allen peraltro si dimostrò molto rispettoso della mia paranoia sciistica, tanto da realizzare un dump, una copia virtuale, insomma, di Slalom. Perché sì, per quanto non materiale, almeno in quel modo avrei potuto avere una versione pura, non piratata, limpida, del gioco. (Non ho mai sopportato, infatti, che all’interno del codice della versione pirata ci fosse un lugubre messaggio “CRACKED BY ANTI-ROM”, checcavolo, voglio dimenticare l’orrore di Sarajevo distrutta dalla guerra e lo faccio con un gioco piratato da uno che come nickname ha un’invettiva contro gli zingari?) Ma, siccome questo è un racconto vero eppure simbolista, accadde che, contro ogni logica, il dump della copia originale non funzionava. Niente da fare. Né su emulazione, né prendendo i dati e copiandoli su una EPROM per costruirsi una cartuccia amatoriale, finta per manifattura, vera nei dati. Niente. Blank screen. Vaffanculo. Troll delle nevi.

Per due anni, insistentemente, ho pattugliato Yahoo Auctions sperando di intercettare la cartuccia originale in asta. Niente di niente: altri giochi MAX, diversi MAX tra i 300 e 400 euro (ma chissene, io volevo la cartuccia da giocare sul mio 64 d’infanzia!), Amiga europei finiti chissà come in Giappone. Decisi di provare una via più ignorante. Scrissi un post sul forum del sito Lemon64, uno dei punti di riferimento per i sessantaquattristi. Datemi Slalom, ragazzi. Vi do in cambio quello che volete. Vi prego. Tutti molto gentili eccetera ma no.

Finché.

L’uomo di Tarragona mi scrive nei messaggi privati del forum di Lemon. È la fine del 2013, è quasi Natale.

“I've readed your post. I've the SLALOM cartridge. I don't want to sell it but, if you want, I can change it for other MAX cartridge that you have.”

Boom.

Concentrati, Babich. Concentrati. Devi trovare una soluzione. Il treno per Tarragona passa una sola volta nella vita. Dice che ti dà la cartuccia. Evidentemente è lontano dall'avere la collezione completa. Gli basta un buon baratto, magari due, tre cartucce rare per una rarissima. Ha perfettamente senso. Solo che tu, Babich, non hai nemmeno una fottuta cartuccia MAX. Perché non sei un collezionista. Sei un cretino. Vuoi gareggiare in una lega che non ti compete. Vuoi giocare a tennis contro Jimmy Connors usando la racchetta da badminton. Vuoi spogliare le Ragazze Cin Cin senza la fiche-cadeau Panto.

Be’, c’è un momento in cui l’unico modo per crescere è quello di lasciar perdere. Di capire che non si può avere tutto. Che nessun bene materiale può davvero essere cruciale come catalizzatore di chissà quali simbolismi, perché alla fine i feticci sono solo lo strumento sul quale proiettiamo aspetti più o meno consci della nostra natura. Che tutto è vanità, vanità delle vanità, e tanto più la maledetta cartuccia di Slalom.

Certo, c’è un momento così. Ma c’è anche un momento in cui fanculo, io la voglio quella cartuccia, e visto che lo so già da me che tutto è vanità e trullallero trullallà, la voglio ancora di più, perché nell’effimero alberga il sublime, perché tenere tra le mani il simbolo concreto della vanità del tutto genera un fremito in cui l’amore si fa morte e la morte si fa rinascita e

OH, INSOMMA, POSSO AVERE ‘STA CARTUCCIA E BASTA? E poi la chiudiamo qui. Mmsì, a parte la scheda originale da sala di Ghouls’n’Ghosts, ma questa è un’altra storia.

Così ho chiamato L’Illustre Illustratore, un uomo, un maestro, un collezionista al di là del bene e del male. E ho chiesto, con l’umiltà assoluta, aiuto. Aiutami, amico Illustratore. Tu che hai tutte quelle cartucce Commodore che hai salvato per miracolo dalla chiusura dell’ultimo rivenditore Commodore di Roma. Tu che hai avuto per le mani l’interfaccia MIDI per Commodore 64 creata ad hoc su richiesta di Lucio Battisti, prima che la sorte infausta la friggesse sul campo di battaglia. Tu. Aiutami. Dammi un arsenale di cartucce con cui abbattere le richieste dell’uomo di Tarragona. Saziamolo, confondiamolo, strappiamo la sacra reliquia di neve alla terra di Spagna, che poi mi si scioglie tutta, mica siamo nell’Hokkaido.

E insomma stiamo una settimana a far foto e catalogare una vagonata di cartucce. Perché l’Illustre Illustratore ha un cuore che De Amicis può nascondersi. E alla fine mi sento forte, temprato. Per sicurezza ho fotografato anche ogni singola console e cartuccia che possiedo, si sa mai. Mi preparo all’appuntamento virtuale con l’uomo di Tarragona. Male che vada, se proprio non vuole questi trecento chili di cart, ce lo seppellisco, l’uomo di Tarragona. Ma prima del final showdown, ho un piccolo lampo di genio. Niente di che, ma comunque è un’idea. Stalkerando con cura l’uomo di Tarragona, ho notato una sua passione per gli adventure testuali della Infocom. Sta’ a vedere che…

Corro in cantina. Sotto un controller per Dreamcast per il gioco Pop’n’Music, recupero un pacchetto di cui avevo quasi dimenticato l’esistenza. Lo apro. Sono loro. Gli InvisiClues. Le guide per i giochi Infocom. Quelle con le pagine bianche come la neve, che se ci hai il pennarone magico lo passi nei riquadri e appare la soluzione di questo o quell’enigma. Sono dieci. Suspended, Infidel, Deadline, Sorcerer, Enchanter, Zork… Wow. Sono in ottimo stato. Li trafugai dallo Studio Vit quando, lavorandoci, ebbi l’amara sorte di dover chiudere la porta e uscire per ultimo. Lo studio editoriale che realizzava per la Jackson Videogiochi. Sì, ci ho lavorato un po’. Poi è andato tutto a ramengo e l’incredibile Riccardo Albini mi ha detto: tu, tu che sei un giovane vecchio, e pigliatele su, tutte ‘ste riviste. OK. Riviste. Speciali. Game Power. E gli Invisiclues, perché no. Era il 2001. Davvero non ricordavo più di averli. Qualcosa devono valere. Guardo su eBay. Hm. Sì, qualcosa valgono. Tutti insieme anche di più.

“UOMO DI TARRAGONA!”

(woooosh, fischia il vento nelle gole della Catalonia arse dal sole, a las cinco de la tarde)

“Sono arrivato al rendez-vous armato solo di oggetti collezionistici, rispettando i patti. In questa sacca io ti porto le cartucce che accetteresti solo per pietà, perché, anche se tanto lo vorrei, la verità è che so che tu non le aneli.”

(woooosh)

“In questa busta agilmente ricavata da un Maxi-Pigna del 1984, invece, io reco gli InvisiClues. Lo so che, segretamente, converti avventure testuali su formati ove nessuno mai le vorrà giocate. Ho il potere dell’Internet! Lo stesso potere che mi ha portato a conoscere la verità su Slalom mi ha portato anche a conoscere la tua nobile anima di avventuriero no profit! Siamo due cavalieri alla ricerca della stessa liberazione, incarnata da reliquie diverse, e il Destino ha voluto dare a ciascuno di noi quella dall’altro agognata! Deponi ogni dubbio, uomo di Tarragona, abbracciamoci, perché siamo uguali, io e te, nomadi lungo il transito dell’apparente dualità! Cuccioli smarriti nell’immensità! Ce l’avevate Candy Candy in Spagna? Ah, non con la sigla italiana? Ma pensa…”

(woooosh)

 “Candy Candy. Apareixen temes com la família, el valor de l'amistat, el primer amor o la necessitat de tenir personalitat, entre d'altres”.

Resto solo. Non so bene cosa sia successo, o meglio come. Ma tra le mani stringo

Essa. Esso. Egli. Lui.

Mamma, papà, non so se, da dove siete, la potete sentire, questa musica. È See, the conquering hero comes di Georg Friedrich Handel. Ricordate? È la musica che accompagna lo high score di Slalom. Ah, sì, si chiamava Slalom il gioco dello sci. Boh, forse non è così importante. Però era bello giocare e sapervi per casa, sapervi anche infastiditi da tutto ‘sto Commodore, e che palle sempre al computer, ma alla fine mi dicevate “questo è un pezzo di musica barocca!” e non vi dispiaceva che tutto sommato ‘sto coso potesse suonare Handel. A parte questo, era bello guardare le gare di sci insieme. Non esiste un’età dell’oro assoluta per l’umanità, ma ogni essere umano cerca di ricavarsene una nella propria microscopica esistenza. Generando, in opposto, un senso di perdita man mano che gli anni passano. Il trampolino diroccato di Sarajevo. Lo stadio trasformato in un cimitero per le vittime della guerra.

E ora ci sono questi Giochi invernali di Sochi, che manco so bene dov’è, e che per altri, magari, un giorno, significheranno qualcosa, un ricordo, oppure no, e allora sarà qualcos’altro ancora, a simboleggiare la loro piccola, personale età dell’oro, un oro bianco come la neve, immacolato, ghiaccio che non può essere scalfito. Ma per me questo gioco è finito. Le note di Handel celebrano la gloria dell’esistenza, che dalla fine trae un nuovo inizio. L’ultima strip di un bellissimo fumetto finisce esattamente così, con un nuovo inizio, nella neve, una tabula rasa piena di possibilità. It’s a magical world, Hobbes, ol’ buddy. Let’s go exploring.