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Racconti dall'ospizio #181 - Pokémon TCG: la prima vera esperienza social dei Pokémon

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Nella desolazione del panorama culturale casertano di inizio millennio c’era un’oasi di nerdità piuttosto importante, che ha forgiato passioni ed amicizie ormai quasi ventennali. Per qualche anno, Caserta, una cittadina medio-basso borghese di circa settantamila abitanti, ha avuto una ludoteca comunale, uno spazio per provare i giochi da tavolo messi a disposizione dall’associazione ma soprattutto per incontrare altre persone con le stesse inclinazioni asociali. Certo, era gestita da un ambiguo e corpulento individuo, con evidenti problemi relazionali, molteplici difetti di pronuncia e soprattutto dubbi legami politici, ma all’epoca, poco me ne fregava di tutto questo, a dire il vero. E in fondo si faceva vedere molto poco, passava giusto per ritirare i ricavi della vendita di carte e gadget vari, reinvestendoli in altro materiale per la ludoteca. Certo, come no...

“La Tana del Drago Imperiale” sorgeva in quest’angolino del chiostro, sotto i porticati.

Quel che importava, comunque, era l’esistenza stessa de “La Tana del Drago Imperiale”, nome cafonissimo e senza senso assegnato dall’individuo corpulento di cui sopra. Per il provincialismo spinto di Caserta, la ludoteca era un luogo importantissimo e quasi irreale: non sarebbe dovuto esistere e invece c’era. E poco importava il fatto che eravamo stipati in quaranta metri quadri di umidità e muffa sotto i portici di un vecchio convento nel cuore della città, “La Tana del Drago Imperiale” è stata la mia vera casa per quasi due anni, a partire dal 2002, prima che chiudesse sotto il peso di una pessima gestione e di mutate volontà politiche. Sono ancora così legato emozionalmente a quel posto che conservo la chiave del lucchetto di ingresso attaccata alle mie chiavi di casa. Non ho mai avuto il coraggio di toglierla. “La Tana del Drago Imperiale” era, però, soprattutto la mia Palestra, e non nel senso di luogo per esercizi fisici, con cui non sono mai andato particolarmente d’accordo. Per un paio d’anni sono stato Capopalestra di Caserta del gioco di carte Pokémon, ed era bellissimo. OK, quando avete smesso di ridere, posso continuare.

Pensavo di essere figo come loro ma in realtà ero solo un ragazzino sottopeso, con gli occhiali e una maglietta rossa troppo grande.

Pokémon è un fenomeno multiforme ma le sue incarnazioni primarie, e più conosciute, sono state sicuramente videogiochi e cartoni animati. Nei primi anni Duemila, però, anche il gioco di carte spaccava di brutto in termini di popolarità, con sfide e mini tornei organizzati praticamente dappertutto, anche nel mio piccolo e sperduto quartiere, specialmente nell’androne del palazzo di fronte al mio, che si trasformava in un’arena da combattimento. Tanto, comunque, dopo mezz’ora, infastidita dalle urla sovraumane, si affacciava la signora pazza del terzo piano e ci cacciava con la scopa, ma era molto bello, finché durava. Imparai a giocare così, per strada, fra i cespugli del parchetto vicino a casa, con tutte le carte sporche di terra. Sarebbe stata una cosa molto gangsta, se solo non fosse stato un maledetto gioco di carte con dei pucciosi mostri giapponesi.

Per chi se lo fosse perso, il gioco di carte collezionabili dei Pokémon, che tra le altre cose è ancora in vita, non è poi tanto diverso dal ben più celebre Magic: The Gathering. Si costruisce un mazzetto di carte fatto di Pokémon, Carte Energia (equivalente del mana, ma da assegnare direttamente al Pokémon) e vari oggetti ed azioni, simili agli istantanei di Magic, che possono essere utili durante la partita. A inizio partita, ogni giocatore mette sul tavolo sei carte coperte, prendendole dalla pila del mazzetto. Queste sono definite “Carte Premio” e, ogni volta che si sconfigge un Pokémon avversario, è possibile prenderne una. Il primo dei due giocatori che prende tutte le carte premio, ovvero che sconfigge sei Pokémon avversari, vince. In ogni turno, il giocatore può assegnare Carte Energia ai propri Pokémon, schierarli in prima linea o nelle retrovie e poi attaccare usando uno degli attacchi presenti sulla carta del Pokémon attualmente attivo, a patto di avere le Carte Energia necessarie per farlo. Il gioco è tutto qui: semplice, veloce, essenziale e soprattutto molto ma molto Pokémon. A differenza di Magic, c’è anche un elemento aleatorio, rappresentato dal lancio di una moneta, che molte abilità e carte richiedono: tipicamente, con testa succede qualcosa di bello e con croce qualcosa di brutto, oppure non succede nulla. La cosa farà anche storcere il naso ai puristi dei giochi di carte collezionabili, ma ho sempre trovato che quel pizzico di casualità aggiungesse pepe al gioco, forzando i giocatori ad adeguare le proprie tattiche in corsa, piuttosto che a fare affidamento a una rigida strategia precostruita.

Una tipica partita a Pokémon durante la primissima edizione.

La cosa più divertente era comunque l’atmosfera che si creava, le frasi nonsense prese dal cartone che si sparavano, gli attacchi dei Pokémon urlati senza alcuna ragione e soprattutto senza alcun rispetto per gli inquilini. “Vai Charizard, usa LANCIAFIAMME!” e altre espressioni simili rimbombavano regolarmente attraverso la tromba delle scale, dando l’impressione di trovarsi in un luogo molto più grande. E in fondo così ci vedevamo tutti: coraggiosi allenatori intenti a sfidarsi ancora e ancora nella grande arena di Pokémon Stadium, per stabilire una volta e per sempre chi sarebbe stato “the very best/like no one ever was”, come cantava la sigla americana dell’anime.

Costruii tutti i miei primi mazzetti di carte senza spendere una lira. All’inizio, contai sul mero effetto pietà, sbavando durante le partite altrui per far sì che gli altri ragazzini mi regalassero carte. Poi, forte di una conoscenza quasi perfetta del regolamento ufficiale, venivo chiamato ad arbitrare partite e piccoli tornei negli androni dei palazzi vicini, in cambio di qualche carta scarsa. Da lì, grazie a sordidi giri e scambi di favori, arrivai ad acquisire qualche carta forte, per poter giocare in maniera dignitosa. E ancora, carte rare in cambio dell’installazione di videogiochi e software di dubbia provenienza, oppure per la risoluzione di piccoli problemi informatici. Penso che solo grazie all’uscita di The Sims, che tutti volevano tipo eroina, sia stato in grado di costruire uno dei miei mazzetti più forti.

Orde di bambini temevano molto più questa carta che le cazziate dei propri genitori quando scoprivano quanto avevano speso in rettangolini di carta.

Con l’avvento della ludoteca comunale, le cose non potevano che peggiorare, e quando venne fuori che serviva un responsabile per il gioco di carte dei Pokémon, mi feci avanti senza pensarci due volte e passai dall’altro lato del polveroso bancone. Mi venne consegnata la maglietta ufficiale di color rosso fuoco, con il logo dei Pokémon in petto e un’enorme scritta “Capopalestra” sulla schiena. Era la cosa più bella che avessi mai visto. I miei compiti non erano poi molto diversi da quelli delle mie controparti virtuali: ogni fine settimana, orde di ragazzini fluivano nell’angusto spazio della ludoteca per sfidarsi, scambiare carte e comprarne di nuove. Ad ognuno di loro era assegnato una sorta di passaporto personale, con una pagina di caselline vuote per ogni mese: ad ogni partita vinta, riempivo tre caselline con un apposito timbro; in caso di partita persa, si beccavano un solo timbrino. Riempire la pagina di quel mese garantiva l’accesso alla sfida col Capopalestra, cioè me. Avevo almeno tre mazzetti abbastanza forti, che usavo a rotazione per affrontarli, fra cui un leggendario mazzetto a tema psichico a base di Espeon, che molti temevano come la morte, almeno in quel momento storico del gioco. Cercavo di infondere una certa solennità alla sfida con me, quasi giocando di ruolo, proprio come se fossi nel videogioco, e i ragazzini sembravano apprezzare, chi più chi meno.

Giocavo la mia prima partita senza contenermi in alcun modo, per la seconda avevo il freno a mano un po’ tirato, alla terza cercavo di farli vincere, soprattutto per evitare crisi di pianto, capitate più volte in passato e molto difficili da spiegare ai genitori che venivano a prenderli dopo qualche ora. Ciò non toglie che comunque moltissimi mi facessero il culo a strisce già alla prima partita. Battermi significava vincere l’esclusiva spilletta di una delle palestre dei Pokémon, esattamente come gli stemmini presenti nella schermata di salvataggio della prima generazione dei videogiochi. A volte, in caso di eventi speciali, si beccava anche qualche carta promozionale, tra cui la mitica e fortissima Eevee Promo Foil, che ancora conservo da qualche parte. A differenza del più serioso Magic: The Gathering, che da un punto di vista ludico rimane un gioco migliore, Pokémon riusciva a essere un’esperienza molto più completa, quasi un gioco di ruolo live, grazie a queste meccaniche fortemente volute da chi produceva e gestiva le carte in Italia e nel Mondo.

La mitica Eevee Promo Foil, premio finale di un anno di combattimenti. A casa ne ho tipo quattro.

Introdusse per la prima volta l’elemento sociale nel mondo di Pokémon: all’epoca, il multiplayer online era cosa rara, i Game Boy in giro latitavano e i cavi di collegamento ancora di più. È stato, per tanti versi e per tanto tempo, il vero modo di vivere l’esperienza da un punto di vista collettivo, in un’era senza connessione Wi-Fi e senza troppi soldi in tasca. Bastava avere un timbrino, un passaporto, qualche spillina e, se proprio si era fortunati, una magnifica maglietta da Capopalestra.