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Phoenix, alieni, 1980, colori agghiaccianti, un gioco (ingiustamente) snobbato | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Il 1980, come già ribadito molte volte, è stato un anno seminale e importantissimo per la storia dei videogiochi. Pac-Man, Missile Command, Battlezone; insomma, roba pesante, mica paglia. Sempre nel 1980 però sono usciti due giochi, due sparatutto spaziali, a cui spesso non si conferisce l’importanza che meritano. I due titoli in questione sono Moon Cresta di Nichibutsu e Phoenix, sviluppato da Amstar Electronics/Centuri e pubblicato da Taito.

Ripensare (e rigiocare, grazie al Mame) a Phoenix mi riporta in quella sala giochi di dove passavo i momenti postprandiali vacanzieri in attesa di potermi tuffare in acqua (eh sì, mia madre era una di quelle che se anche mangiavi un acino d’uva, toccava aspettare due ore e mezza; figuriamoci con un pasto completo nello stomaco), e dove ho potuto sperimentare parecchie pietre miliari della storia dei videogiochi. 

Come ho già avuto modo di ricordare da queste parti, quella sala giochi, per piccola che fosse, riusciva sempre a sfoggiare cabinati difficili da incrociare persino in città: Out Run e Chase HQ in versione super deluxe, il cabinato lusso di Star Wars e Operation Wolf con le sue Uzi pronte a sparare. Addirittura, un anno ci trovammo il coin-op con due schermi (il secondo era posizionato più in alto, per permettere agli altri avventori di seguire la partita) di Firefox, il lasergame tratto del film con Clint Eastwood. detto questo, nonostante un turnover veramente notevole, c’erano alcuni giochi che restavano fermi al loro posto per anni, e nonostante fossero ormai vetusti, c’era sempre qualche affezionato pronto a inserire una moneta o due. Uno di questi titoli era proprio Phoenix. me lo ricordo bene soprattutto in via della grafica atroce (del resto, parliamo di un gioco uscito nel 1980), e per il fatto che un mio amico del tempo, Marco, ci spendeva praticamente tutta la paghetta.

Acciacchi dell’età a parte, Phoenix era un signor gioco. Figlio del trend “navicella spaziale che si muove solo a sinistra e a destra” di cui Galaxian era il più importante esponente dopo Space Invaders (e che troverà in Galaga, a mio avviso, la perfezione), quella offerta da  Amstar Electronics era un esperienza votata al gameplay puro, senza contare la varietà dei nemici e, soprattutto, la presenza di un boss di fine livello (che per l’epoca, era una roba relativamente desueta).

Ovviamente siamo dalle parti di Galaxian, soprattutto per quanto riguarda le prime ondate di avversari che tentano di abbattersi suicide sulla nostra navicella. Poi, piano piano la difficoltà sale, e il giocatore è chiamato ad affrontare orde di nemici sempre più minacciosi, tipo delle aquile azzurre e rosa-violetto che, per  essere uccise, vanno colpite esattamente al centro. Diversamente, le bestiacce scompaiono solo qualche secondo, per poi riapparire.

La navicella a nostra disposizione  non è dotata di smart bomb o cose simili, ma di uno scudo energetico in grado di proteggerci per un paio di secondi dai colpi nemici, obbligandoci tuttavia a restare immobili. Scudo, tra l’altro, che è virtualmente illimitato, a patto di attendere qualche secondo tra un’attivazione e l’altra.

Uno degli aggettivi che mi sono sempre balzati in mente pensando, e giocando, a Phoenix è “bizzarro”. Phoenix è un gioco bizzarro sia per i colori da mal di testa scelti dagli sviluppatori per ciascun elemento, dai nemici allo sfondo, ma soprattutto per la colonna sonora che presenta una rivisitazione di pezzi famosi come Per Elisa di Beethoven - non proprio il classico brano da sparatutto - proposto con una malinconia che neanche Remì e la sua scimmietta.

Come dicevamo prima, però, una delle migliori caratteristiche di Phoenix era il boss di fine livello: un’astronave gigantesca che proteggeva al suo interno il nemico finale. Per poterne avere ragione, il giocatore era chiamato a distruggere tutte le parti che bloccavano l’accesso al boss, alla maniera delle protezioni in Space Invaders.

Sinceramente, pur nelle sue stranezze, non capisco perché Phoenix passi ancora per il cugino sfortunato di tanti sparatutto suoi contemporanei baciati da un maggiore successo. È ovviamente un gioco difficilissimo e al limite del masochismo, OK, ma considerando che è praticamente impossibile trovarlo, che io sappia, in raccolte di retrogiochi varie, consiglio a tutti di farci comunque un giro su MAME. Così, anche solo per vedere di cosa si tratta.