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Pet Sematary è un remake horror del nuovo millennio. Quella cosa lì. Non se ne esce

In Francia, Pet Sematary si intitola Simetierre. Non c’è, quindi, il riferimento a un cimitero per animali ma rimane il giochino della storpiatura nello scrivere la parola. E questa è forse la cosa più interessante che ho da dire sul remake di Cimitero vivente, un film dal quale non è che mi aspettassi molto ma in cui avevo osato sperare un po’, perché arrivava dai registi di quella bella cosetta angosciante che è Starry Eyes. E invece è andata male, ne è venuto fuori il solito horroretto moscio, confezionato in maniera professionale ma privo di guizzi, che fa intravedere fra i rami la personalità dei registi ma la soffoca nella sua coltre da cinema di produzione e riesce anche ad ammazzare quel paio di idee che pure ci sarebbero. Per un attimo ci speri, poi ti accontenti di stare guardando una roba dignitosa, poi vieni ucciso dal finalaccio e ti rimane solo addosso il dispiacere per ciò che sarebbe potuto essere. Che palle.

Tra l’altro, delle due idee dignitose, una subisce il trattamento Terminator 2: viene annunciata dai trailer e da tutto il materiale promozionale, nonostante il film ci giochi su e la sfrutti palesemente come colpo di scena rivolto a chi conosce il romanzo e/o il film degli anni Ottanta. Maledetto reparto marketing! Per cui, insomma, tanto vale dirlo: questa volta, sotto il camion, ci finisce la bambina più grande, invece del bambino più piccolo. Ed è un cambio di prospettiva interessante, perché apre le porte a suggestioni diverse, nel momento in cui a tornare dal regno dei morti è una ragazzina dal pensiero e dalla parola ben più articolati: l’attrice è molto brava e, nei limiti del possibile, sfrutta la cosa per giocare ancora di più su quell’equilibrio gustoso del “ci fa o ci è?” Fatto sta che, anche grazie al sempre ottimo Jason Clarke, in quella breve parte di film che esplora il rapporto post mortem tra padre e figlia emergono gli spunti migliori e una disperazione di fondo apprezzabile.

Poi, certo, nel mio caso gioca anche l’immedesimazione da padre di bimbetta, ma in quell’idea e, per brevi attimi, in come viene sviluppata, ci sono le cose migliori del film, i lampi di una roba ben migliore che sarebbe potuta essere. E l’altra idea sta nella rielaborazione di tutto il discorso della sorella inferma, che qui prende una piega da cui emerge il gusto per la carne che Kevin Kolsch e Dennis Widmyer avevano mostrato in Starry Eyes e che dà perlomeno vita a un paio di spunti visivi azzeccati. Il problema è che son cose da pescare con le pinze nel mezzo del solito horror che procede sereno col pilota automatico e che, soprattutto, nella parte finale manda completamente in vacca anche quanto di buono aveva messo in piedi, sputtanando il lavoro fatto sulla ragazzina in nome di una conclusione veramente mal gestita. Senza contare che esce con le ossa rotte dal confronto con il finale originale, così posato, disperato, straziante, cattivo, cinico (tutte caratteristiche che, paradossalmente, proprio Starry Eyes esprimeva con forza). Peccato.

L’ho visto al cinema, in lingua originale, con John Lithgow che fa l’accento da provincialotto americano. Mi sento di scommettere che col doppiaggio non ci si guadagni, ma insomma.