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Ero il re di PES, per quel tanto che importava | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Da bambini, nel proprio gruppetto di amici c’è sempre qualcuno che spicca in qualche campo. C’è quello talmente bravo a calcio da rivaleggiare con gente di due o tre anni più grande, oppure quell’altro che risolve qualunque problema di matematica in scioltezza; c’è poi il bambino bellissimo, così desiderato da aver messo in curriculum una dozzina di fidanzatine fra asilo ed elementari; e infine c’ero io, il più forte a PES. Imbattibile per chiunque.

A pensarci meglio non è che fossi bravo a PES, ma ai calcistici in generale. La prima vera esperienza di dominio sistematico fu con UEFA Euro 2000 su PlayStation, comprata solo nel 2002 perché già avevo il Nintendo 64, e agli occhi dei miei genitori non aveva molto senso spendere altri soldi per una nuova console. In realtà ai calcistici ci giocavo da prima, dai miei amici: li battevo, a FIFA, pur non potendoci giocare a casa. Per questo volevo così tanto una PlayStation: già ero forte senza allenarmi, figurarsi con la possibilità di fare pratica dalla mattina alla sera.

Anche se con un certo ritardo rispetto all’uscita originale, giocai a UEFA Euro 2000 fino a consumarne letteralmente il disco – che comunque non versava in ottime condizioni, essendo uno scarto ormai inutilizzato di un cugino benestante. Il passo successivo non fu però FIFA com’era naturale (erano entrambi sviluppati da EA Sports) ma PES, o meglio, ISS Pro Evolution 2. A casa dei miei amichetti, avevo scoperto che c’era quest’altro gioco di calcio con la grafica un po’ più scrausa, i calciatori dalla testa spigolosa e a volte pure coi nomi storpiati – leggendario quello di uno dei più forti terzini sinistri della storia del Brasile, che nei giochi Konami aveva il nome di Roberto Larcos. E però, rispetto a FIFA, questo ISS Pro Evolution risultava fin da subito più veloce, tecnico, divertente; e poi era difficile, ovvero quello che cercavo, abituato com’ero a sconfiggere chiunque, tra umani e CPU.

Quello di ISS Pro Evolution 2 è stato il disco che più ha girato sul lettore ottico della mia PlayStation. All’epoca non erano molti i giochi che potevo farmi comprare, dunque un calcistico era la scelta più ovvia, con una rigiocabilità che nel caso di ISS Pro si spalmava non su mesi, ma addirittura su anni. Nei periodi invernali molti pomeriggi li spendevo col joypad in mano vincendo partite su partite nella Master League, mitologica modalità campionato di ISS Pro e successivamente di PES; se nell’esibizione potevi sfidare soltanto le nazionali, qui c’erano addirittura i club, da affrontare lungo un torneo all’italiana di rara difficoltà: si partiva con una squdra di pippe fittizie (Castolo, Minanda o Ximenez fra i nomi più iconici) da schierare contro le maggiori squadre europee e poi, partita dopo partita, si acquisivano crediti con cui comprare calciatori migliori fino a costruire una squadra in grado di vincere il campionato. Affrontare avversari nettamente superiori per decine di partite, magari a una difficoltà di gioco elevata, poteva risultare sfiancante ma per me era il giusto compromesso fra divertimento e allenamento estremo – quello a cui solo i migliori si potevano sottoporre.

Quando mi stancavo, potevo invece rilassarmi con l’editor del gioco. Gli sviluppatori ne avevano messo uno con così tante opzioni da permettere ai giocatori di riparare manualmente le varie incoerenze presenti, in gran parte derivanti dall’assenza di diritti. I vari Roberto Larcos potevano così essere aggiustati in Roberto Carlos, Zirom in Zidane, oppure il mio preferito, quel Killer che nella realtà era Jan Koller, gigantesco centravanti pelato della Repubblica Ceca che tramutava ogni cross in gol, nei videogiochi più che nel calcio reale. L’editor era anche un modo per sbizzarrire la fantasia, creando dal nulla squadre che nessun gioco avrebbe potuto ospitare: la squadra della Calabria, ad esempio, con Ciccio Cozza e Stefano Fiore sempre in agguato sulla trequarti a sfruttare le invenzioni di Benny Carbone; o ancora, creando una propria versione videoludica del Cervia di Ciccio Graziani. All’epoca guardavo tantissima televisione e non potevo dunque esimermi dal giocare con la squadra protagonista del reality show Campioni, in onda su Italia 1. Curavo ogni più piccolo dettaglio, della maglia a strisce verticali gialloblù fino al pizzetto del fantasista della squadra, Claudio Moschino, ma finivo per esagerare coi valori assegnati; e così nel mio ISS Pro, accadeva che Alessandro Del Piero era più o meno forte quanto Christian Giuffrida, sbisciante punta del Cervia che però militava in Eccellenza, mica in Serie A.

I miei inverni li passavo così. D’estate era invece tempo di mettermi alla prova. Gran parte dei pomeriggi stavo in spiaggia, ma se sul bagnasciuga trovavo qualcuno che giocava a ISS Pro, e magari diceva pure di essere abbastanza forte, ne approfittavo facendo di tutto per invitarlo a casa mia e sfidarlo. Vincevo sempre io: dominavo il gioco e quando non ci riuscivo, la spuntavo in ripartenza come da tradizione italiana. Ogni calcio d’angolo si traduceva in una probabilissima occasione da gol, i calci di punizione entro i 28 metri equivalevano a un calcio di rigore, e segnarmi era difficilissimo, subivo pochissimi gol. Ero un fenomeno, ma alcuni osavavano mettere in dubbio la mia bravura; la PlayStation 2 era uscita da un bel po’ e io riuscivo sì a dominare chiunque, ma su una vecchia versione di ISS Pro pensata peraltro per una console ormai quasi obsoleta. Per essere il più forte dovevo fare il salto generazionale.

A Natale del 2005 arrivò finalmente PS2 assieme, però, a Tekken 5; era il gioco in bundle, quello che mi sarei dovuto tenere per chissà quanto ma non era un problema, visto che qualche mese prima, con una certa previdenza avevo acquistato una rivista con dentro la demo di Pro Evolution Soccer 5. Anche se in versione ridotta, i cambiamenti erano talmente tanti che sovrastavano l’ovvio miglioramento grafico – che restava il più evidente, coi calciatori virtuali finalmente somiglianti alle controparti reali. Ogni aspetto del gameplay era più fluido, verosimile, le opzioni tattiche triplicate; e c’erano le licenze, soprattutto. Nella demo erano presenti Chelsea, Arsenal, Valencia e Real Madrid, poche ma sufficienti per dar vita a quadrangolari appassionanti fra me le la CPU, impostata fin dal principio al livello di difficoltà ‘Campione’.

Comprai la versione completa di PES 5 con l’arrivo dell’estate, che era poi quella del 2006, l’anno dei mondiali vinti dall’Italia. Io ero in fissa col calcio su più livelli: ci giocavo sulla PS2, col pallone di gomma in spiaggia e di cuoio al campetto, e aspettavo l’ora di pranzo più per guardare Studio Sport su Italia 1 che per mangiare. Cominciavo a pensare che da grande potevo fare il giornalista: non tanto per amore della notizia, ma per viaggiare e guardare le partite a sbafo. Ero talmente affamato di calcio che cominciai pure a leggere i quotidiani, con quella loro aurea di sapere immarcescibile; li sfogliavo al lido che frequentavo, dove ogni giorno portavano una copia della Gazzetta dello Sport e una di Repubblica : la prima la guardavo ma senza troppa attenzione, mi pareva un po’ la versione cartacea di Studio Sport, mentre la seconda provavo a leggerla con attenzione, non so perché, forse per darmi un tono; guardavo la prima pagina incuriosito ma capendoci poco, poi la seconda e la terza, ma mi annoiavo arrendendomi poco dopo, saltando direttamente alle pagine sportive dove c’era spesso, ricordo con chiarezza, un pezzo di Vittorio Zucconi. Non sapevo manco chi fosse questo tizio, figurarsi il fatto che fosse prestato allo sport solo per quell’evento, ma mi bastava leggere i suoi pezzi, agili ed eleganti, per sognarmi un futuro in cui sarei potuto essere fiero di me stesso, chissà, lavorando a Repubblica. Ma questa è un’altra storia, anche perché nel frattempo avevo PES a cui dedicarmi.

Quell’estate fu un trionfo. L’Italia allenata da Marcello Lippi vinse il Mondiale meritandoselo contro ogni mia aspettativa, mentre io non persi neanche una partita a PES, giocando sempre con quell’Arsenal a cui mi ero ormai abituato con la demo. Non era affatto la squadra più forte del gioco, ma era quella con cui rendevo al meglio: come centravanti avevano un Henry infermabile, nella realtà come nel videogioco. E pure io lo ero, tanto da meritarmi l’acquisto di Pro Evolution Soccer 6 al lancio – i miei genitori avevano finalmente capito il mio talento nascosto, pensavo serioso. Quell’edizione lì è ricordata come una delle migliori del brand di Konami. Le licenze erano molte, finalmente, e fra i tanti piccoli miglioramenti grafici e di gameplay c’era un po’ la sensazione che quello sarebbe stato il PES definitivo. PlayStation 2 aveva raggiunto il suo apice e si preparava a lasciare spazio alla nuova console, quella PS3 su cui sarebbe stato pubblicato un Metal Gear Solid 4 che dalle riviste pareva bello oltre ogni immaginazione, dunque chissà quanto figo sarebbe potuto essere anche il PES di nuova generazione. 

Quell’autunno coincise col primo anno di liceo classico, una scuola che richiedeva un certo impegno, ne ero consapevole. E fu per questo che a un certo punto acconsentii a farmi sequestrare la PlayStation da mia madre; sapevo che dovevo dedicare meno tempo a PES e più allo studio, ma in fondo mi stavo prendendo in giro da solo. Mi ingozzavo di latino e greco controvoglia, e all’uscita dalla scuola non vedevo l’ora di passare dalla sala giochi dov’era arrivata, guarda un po’, una PlayStation 2 posizionata dentro un cabinato: dentro, ovviamente, c’era una copia di Pro Evolution Soccer. Quando sapevo che c’era l’uscita anticipata a mezzogiorno andavo a scuola con il preciso scopo di passare poi dalla sala per sfidare a PES eventuali malcapitati: compagni di classe, di scuola o di altri istituti, sfidavo chiunque anche se non l’avevo mai visto prima di allora. Vincevo spessissimo e quando non accadeva, ottenevo la rivincita nell’arco di una partita al massimo. Sapevo di essere il più forte, ma per averne la certezza dovevo allargare i miei orizzonti.

Al secondo anno cambiarono parecchi professori; i più severi furono trasferiti altrove, sostituiti da altri più flessibili, meno inclini al rigore tradizionalmente associato al liceo classico. Tornai dunque a giocare con regolarità anche a casa. Quell’autunno cominciai poi a navigare su internet, dove scoprì l’esistenza della PES League, una lega semi-professionale di giocatori di Pro Evolution Soccer. Era quello che avevo sempre cercato.

Lessi il loro sito da cima a fondo. Avevano un campionato nazionale con tanto di fasi finali, a cui accedevano solo i migliori classificati nel ranking stagionale, il cui punteggio era determinato dai piazzamenti nelle tappe che erano in programma ogni anno nelle varie regioni italiane. Ce n’era una anche in Calabria, dove vivevo, anche se a Cosenza, che è piuttosto lontana rispetto a dove abitavo io, in provincia di Reggio. Per tutta una serie di motivi, i miei genitori avevano una certa ritrosia nello spostarsi da casa, figurarsi nel lasciarmi andare da solo in una città sconosciuta, per di più se ci andavo con lo scopo di partecipare a un torneo di videogiochi. Ma sapevo che quella di Cosenza era un’occasione che non potevo perdere: mi bastava classificarmi fra le prime posizioni per avere un punteggio che mi avrebbe poi permesso di partecipare alla fase finale in programma allo Stadio Olimpico di Roma: tutto sommato, una missione alla mia portata.

A scuola i miei voti erano migliorati parecchio - tant’è che il secondo anno resta l’unico in cui non sono stato rimandato in neanche una materia, anche se più demeriti dei prof, mi sento di specificare a distanza di tutti questi anni - e così non potevano dirmi di no: dovevano accompagnarmi a Cosenza, e soprattutto dovevano prendermi PES 2008. Me lo meritavo, ed era anche la mia ultima occasione: sul sito della PES League avevo letto che quella sarebbe stata l’ultima edizione giocata su PlayStation 2. Dal 2009 anche loro avrebbero fatto il salto alla console successiva, un passaggio che sapevo già non mi sarei potuto permettere. La PS3 era arrivata da poco nei negozi, con un prezzo di 600 euro. Ogni volta che passavo dall’Euronics del mio paese andavo a guardarla, immaginando il giorno in cui me la sarei presa, che sapevo sarebbe arrivato troppo tardi; a rafforzare questa convizione, ricordo distintamente, fu questa frase pronunciata da un tizio davanti alla postazione di prova che c’era nel negozio: “a facci du cazzu, cu 600 euru mi pagu l’affittu i ddu misi”, che tradotto dal calabrese sarebbe: “caspiterina, con 600 euro riesco a pagarmi l’affitto per ben due mesi”; anche se avevo solo 16 anni, mi sembrava una considerazione più che condivisibile.

Alla fine i miei genitori mi accontentarono, e la primavera successiva mi accompagnarono al centro commerciale Metropolis di Rende, in provincia di Cosenza, per la tappa calabrese della PES League. Nei mesi precedenti mi ero allenato come un forsennato, mi sentivo pronto. In sala giochi non c’era ormai nessuno a tenermi testa, figurarsi la CPU che battevo in scioltezza anche in situazioni assurde – a un certo punto, manco fossi Goku dentro ‘La stanza dello spirito e del tempo’, avevo cominciato a usare la Reggina contro il Real Madrid, e fin quando non vincevo tre partite di fila con più di tre gol di scarto non spegnevo la PlayStation.

Una volta messo piede in quel centro commerciale arrivarono però le prime sorprese. Oltre a essere l’unico adolescente, io ero l’unico a giocare col Milan. Usavo con uno studiatissimo 4-3-2-1: Ambrosini davanti alla difesa a far legna al posto di un Pirlo troppo leggero, con Gattuso e Seedorf sui lati; poi Kakà e Ronaldo mezze punte a inventare alle spalle di Gilardino, forte di testa e nelle sponde; pensavo fosse una tattica raffinatissima, e invece non lo era affatto. Fin dalle amichevoli di riscaldamento, con grande garbo mi fecero notare che no, quello non era il giusto modo per vincere a PES 2008. Le squadre del ‘meta’, parola che manco sapevo cosa significasse, erano altre: il Chelsea (London FC), il Manchester United (Man Red) e il Barcellona. Su un centinaio di partecipanti, quasi tutti usavano queste tre club; io ero l’unico a giocare col Milan. Era la prima volta che la mia bravura a PES veniva messa in dubbio, ma capii subito che avevano ragione. Passai il girone preliminare con un po’ di fortuna, e ai sedicesimi di finale la spuntai solo ai tempi supplementari grazie a una spizzata di testa di Gilardino su calcio d’angolo. Ormai avevo capito che la mia era stata tutta una gran fantasia, che se ero il più forte era soltanto perché vivevo a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, un posto dove le persone appena fanno 18 anni prendono prima il porto d’armi che la patente, figurarsi partecipare a cose come la PES League.

Le prese per il culo, che nei mesi precedenti facevo finta di non sentire quando parlavo del mio desiderio di andare fino a Cosenza per partecipare a un torneo di videogiochi, avevano assunto forma e peso: in fondo, se perdevo non era chissà quale dramma, una cosetta di poco conto. Non ricordo il risultato con cui mi buttarono fuori agli ottavi di finale: 3 a 0 forse, ma fu netto, abbastanza da convincermi ad abbandonare PES, che contestualmente cominciò il suo declino in favore di FIFA. Ma anche questa è un’altra storia.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Konami, che trovate riassunta a questo indirizzo.