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Patlabor e i robottoni usati come pretesto

Alla fine di questo mese, penso che ormai sia chiaro: come per i mostroni grossi, per il popolo del Paese del Sol Levante, anche i robot grossi sono stati quasi sempre un pretesto per parlare d’altro. Teosofia, filosofia, sociologia, psicologia e persino politica sono stati i veri argomenti celati dietro ammassi di metallo inizialmente assomiglianti a boiler, poi a samurai in armatura, soldati in scafandro e, infine, sarcofaghi egiziani, fate o demoni che si menavano con un vario bestiario che andava da mostri del folklore a incubi dadaisti.

Alcune animazioni sono state timide o superficiali (buona parte del Go Nagai più disimpegnato e, per dire, Trider G-7, che alla fine faceva un po’ la parodia della piccola imprenditoria arrembante e perennemente in debito del Giappone del miracolo economico), altre proprio sfacciate.

Tra le più sfacciate, una delle migliori, se chiedete a me (chiedetemelo!) è stata Patlabor.

Ancora oggi una fra le migliori intro di un film di robottoni.

Patlabor o (copia incolla da wikipedia) Kidō keisatsu Patoreiba è innanzitutto il manga di Masami Yuki, ma nasce all’interno di un collettivo di artisti affermati che si dividevano e rimpallavano i vari aspetti di progetti che ambivano alla multimedialità. Il collettivo Headgear si componeva di nomi di prima grandezza, tra cui Mamoru Oshii (che curerà la regia dei due film), Akemi “Creamy” Takada (che curerà il character design dei film), Yutaka Izubuchi (che, dopo essersi fatto le ossa da God Sigma a Macross, passando per vari Gundam, curerà il mecha design) e Kenji Kawai (colonna sonora), è abbastanza evidente che questa “posse” non poteva accontentarsi di fare semplicemente “una storia di robottoni”.

Infatti non lo fece: Patlabor era innanzitutto un poliziottesco classico che più classico non si può. Quasi un “for dummies” del poliziottesco, nel suo presentare la squadra di rincalzi composta da novellini e disadattati, che sotto la guida del genio indecifrabile, diventa una rodata macchina da guerra in grado di portare a casa il risultato, laddove i veterani si scontrano contro il muro composto dalla loro stessa rigidità.

I robot c’erano, ma avrebbero potuto essere qualsiasi altro Mac Guffin ed avrebbe funzionato lo stesso: macchine pompate come in Interceptor, motociclette high spec come Street Hawk, mini carrarmati da sicurezza urbana come in Dominion, poteri esper o bacchette magiche, la qualunque.

Poi, per carità, contento che fosserò robot.

Quello che importava era l’alchimia creata dall’interazione tra la giovanissima e fanatica novellina Noa Izumi e il resto della squadra: il gigante buono Hiromi, l’ansioso Shinshi, l’insuperabile Kumagami/Kanuka e Daisaku Ota, l’emblema stesso dello “sbirro entusiasta”, per cui il buon senso deve quasi sempre cedere il passo all’uso (e abuso) delle prerogative poliziesche.

Importava la relazione di difficile definizione tra Noa e l’altro novellino, Asuma Shinoara, un po’ penalizzato dal fatto che per un lettore italiano medio fosse difficile capire quanto il suo comportamento “precisino” fosse in realtà conseguenza di una educazione e un’infanzia vissute nelle “alte sfere” della gerarchizzata società giapponese (la sua famiglia controlla la Shinohara Heavy Industries, fornitori principali delle forze di polizia).

Importava sopratutto il complicato gioco a scacchi gestito dal Capitano Kiichi “Lama di rasoio” Goto, genio fuori dagli schemi, tanto abile a mascherarsi dietro la facciata di indolente bonaccione senza prospettive di carriera da rendere impossibile capire quanto ci facesse e quanto ci fosse, e dalla più diretta e ligia Shinobu Nagumo, capitano dei veterani della prima squadra; contro i maneggi politici ed economici del sorridente Utsumi, spregiudicato dirigente industriale per cui l’infrazione della legge era semplicemente un mezzo come un altro per guadagnare terreno sul mercato.

Nel giro di due anni netti, il collettivo HeadGear riesce a portare a termine il suo assalto ai diversi medium: al fumetto seguono quasi immediatamente la serie di OAV, la serie televisiva e infine il primo film. Quattro anni dopo, il secondo.

Per questi film, alla regia abbiamo Mamoru Oshii e alle musiche Kenji Kawai; entrambi, da lì a poco, daranno un’altra “volgare dimostrazione di forza” con il film di Ghost in The Shell.

Davvero, non era possibile pensare che sarebbero stati semplici “anime di robottoni”.

Il primo film è un pretesto per porre personaggi e spettatori di fronte allo scenario inquietante della perdita di controllo su una tecnologia da cui ormai si dipende completamente ma si interroga anche sul delirio di onnipotenza in cui scivola l’uomo quando perde contatto con le sue radici e si trova a galleggiare in un vuoto privo di riferimento.

La Tokyo affamata di nuovi lotti edilizi che crea nuovi spazi strappandoli al mare, mentre contemporaneamente spiana e ricicla i vecchi quartieri cancellando ogni memoria, diventa una nuova Babele con, letteralmente, la sua torre della discordia destinata a franare, mentre i labor, che nel manga e nelle serie erano comunque fedeli compagni da “addestrare”, cominciano a mutare in preoccupanti Pitbull o Dobermann, della cui follia è comunque sempre responsabile l’uomo.

E se pensate che la mia metafora sia azzardata, ecco come una frustrata Noa Izumi parla del suo labor, Alphonse: “Fa tutto quello che voglio… non è mai indisciplinato… lui non… lui non farebbe mai qualcosa di sbagliato!”.

Se l’ingenuità fiduciosa di Noa avrà la meglio sulla megalomania nichilista di “Geova”, l’hacker che ha dato il via ad una partita a scacchi ciechi con il suo suicidio, sarà solo grazie ad un paziente lavoro di investigazione, telefonate, analisi, acquisizione di risorse umane e stesura di verbali (quasi sempre immediatamente resi segreti), mandato avanti con una lungimiranza che sfiora la preveggenza dal solito Capitano Goto. Siamo al poliziottesco procedurale al suo meglio.

Non iniziava mai in maniera tranquilla.

Ancora più sfacciato il secondo film, che utilizza i labor come pure decorazioni e alza il tiro andando ad analizzare, nel 1993, quanto sia fragile ed inconsistente una “pace” basata sulla mera supremazia tecnologica di nazioni opulente che si autodichiarano “pacifiche” senza manco disporre strumenti utili a prevenire ed agire. In “pace” semplicemente perché in grado di “tenere fuori” la guerra, scaricarla su altri, ma incapaci di guardare in faccia le conseguenze di questo scarico, di evitarle.

Con così tanta carne al fuoco, è semplicemente normale che i Labor quasi non si vedano: circa a metà del film vengono messi fuori gioco e resteranno “in mutua” fino allo scontro finale.

In questo thriller fantapolitico, la scena è fin dall’inizio per la integerrima Capitana Shinobu Nagumo, per cui quanto accade è, per una volta, “personale”, per l’ambiguo funzionario del Ministero della difesa Arakawa e, chiaramente, per il Capitano Goto, che in questo film titaneggia e lega a sé lo sguardo dello spettatore ogni volta che è in scena, come un Marlon Brando, un De Niro o un Al Pacino al massimo della forza.

Questo non significa che non ci sia spazio anche per gli altri personaggi. Con la solita distribuzione dei ruoli, tutta la “Seconda Squadra” si butta nella mischia e sono forse Asuma e Noa quelli che spiccano di più con il loro processo di crescita: Asuma molto più rilassato e meno formale e Noa che si affranca finalmente dalla sua “infanzia” e dalla Noa del primo film. Messa di fronte alla scelta tra rimanere nelle retrovie e mantenere fede al suo giuramento, anche se questo potrebbe significare l’allontanamento dal servizio attivo, lei stessa dirà: “Il Capitano Goto e gli altri continuano a pensare a me come alla ragazzina innamorata dei Labor. Voglio dimostrare che sono più di questo.”.

Esattamente come questi due film e coloro che li hanno adorati.

Questo articolo, assai pretestuosamente, fa parte della Cover Story dedicata all’arrivo di Neon Genesis Evangelion su Netflix e ai robottoni in generale, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.