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Post Mortem #41: Boomshakalaka!

Una rubrica in cui vi raccontiamo le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, sulla loro esperienza legata alla lavorazione di questo o quel videogioco.

Fra i “Classic Post Mortem” della Game Developers Conference 2018, quello più frizzante, casinista, divertente, divertito, con scampoli di puro avanspettacolo, è stato inevitabilmente quello dedicato a NBA Jam, il classico da sala giochi targato Midway. Come mai? Beh, c’era Tim Kitzrow, storico annunciatore della serie, diventato nel tempo sinonimo di “Boomshakalaka!”, espressione non inventata da lui ma grazie ad NBA Jam resa popolare e parte del gergo comune cestistico (e non solo) a stelle e strisce, tanto quanto “He’s heating up!” e “He’s on fire!”. E se volete dell’avanspettacolo, guardatevi l’inizio del video qua sotto, nel quale introduce l’evento alla GDC, presentandone in stile NBA Jam i co-creatori e game designer Mark Turmell e Sal DiVita.

Come spiega proprio Kitzrow in questo avvio, parlare della creazione di NBA Jam significa parlare dei primi anni Novanta, un periodo di grandi cambiamenti e novità che vide il crollo dell’Unione sovietica, la prima clonazione di una pecora, lo scoppio della Guerra del Golfo e la pubblicazione di un gioco che avrebbe generato una valanga di soldi, diventando un fenomeno e, per certi versi, facendo compiere un balzo stellare in avanti al genere dei videogiochi sportivi tutto, nonostante non fosse certamente una simulazione. Mortal Kombat? Quasi.

NBA Jam venne pubblicato nel 1993 («Organizzammo un evento di presentazione all’All-Star Game di Salt Lake City… già all’epoca i giocatori si lamentavano per le statistiche.») e divenne quasi istantaneamente una macchina stampa soldi. Incassò monetine come nessun altro gioco prima di lui, mangiandosi il primo posto di una classifica che lo vedeva totalizzare quasi quattro volte l’incasso di chi si trovava in seconda posizione (era Virtua Racing, per la cronaca). Nel giro di un anno, fruttò a Midway un miliardo di dollari o, se preferite, quasi quattro miliardi di monetine. Boomshakalaka, appunto. E chiaramente, dato che stiamo parlando dei primi anni Novanta, questo genere di successo in sala giochi non poteva che essere seguito da un’attesissima serie di conversioni casalinghe, capace di vendere nell’ordine del milione di cartucce. Boomshakalaka, appunto.

Il giorno in cui si è tenuto il Classic Post Mortem a San Francisco, il 22 marzo, è il compleanno di Mark Turmell, data che, non a caso, faceva parte del quantitativo abnorme di cheat code inseribili nel gioco.

Mark Turmell aveva iniziato a lavorare sui coin-op con Smash TV, gioco curato da un veterano di spessore assoluto come Eugene Jarvis, e in quel periodo, all’interno di Midway, ci si stava lanciando nell’utilizzo della digitalizzazione. Lo stesso Jarvis aveva sviluppato una nuova piattaforma hardware utilizzata per la creazione di Narc, grande classico della polemica contro la violenza nei videogiochi. Tutti, nell’azienda, erano gasatissimi per questa nuova tecnologia e fu del resto in quel periodo che nacque Mortal Kombat, oltre ovviamente a NBA Jam. Il gioco di Turmell, inizialmente, non era stato pensato come prodotto ufficiale targato NBA. Dato che volevano utilizzare dei giocatori digitalizzati per la grafica, Turmell andò a recuperare un po’ di gente nei playground e il team si mise a utilizzare una tecnica di blue screen «ispirata alle previsioni del tempo» per assemblare gli elementi da infilare nel motore di gioco. A quel punto, però, si resero conto che provare a contattare l’NBA poteva non essere una cattiva idea.

Il team mise quindi assieme un video di presentazione per provare a convincere lo staff della NBA a concedere l’utilizzo della licenza ufficiale e si giocarono tutto sul concetto che non sarebbe stato un gioco Nintendo, non era una produzione infantile. Col senno di poi, forse, non fu la migliore delle idee, dato che arrivò un rifiuto, sulla base del fatto che l’NBA non voleva essere associata alle sale giochi, luoghi dalla fama pessima. Va detto, ha spiegato Turmell, che il loro riferimento principale era Times Square, a New York City, all’epoca un posto lurido, noto come teatro di spaccio e prostituzione. Venne allora preparato un secondo video, incentrato sul mostrare ben altri tipi di sale giochi, luoghi puliti e per famiglie, e alla fine si trovò un accordo, fra l’altro piuttosto favorevole, considerando che Midway si trovò a dover pagare solo 150 dollari su ciascun cabinato venduto a 3500.

L’utilizzo della licenza ufficiale avrebbe, ovviamente, garantito un boost di popolarità e riconoscibilità non indifferente, ma causò anche parecchie complicazioni. Bisogna tenere conto che si parla di quasi trent’anni fa, non c’era l’accesso a internet che abbiamo oggi e procurarsi la documentazione era più complesso. Il team di sviluppo dovette accumulare una libreria immensa di quotidiani e riviste, da cui pescavano fotografie dei giocatori che decidevano di utilizzare (e la selezione avrebbe causato parecchie rotture di scatole da parte di chi non la apprezzò).

Da quella documentazione fotografica, bisognava poi trarre gli asset per il gioco, cercando anche di caratterizzarli col look più adatto. Chiaramente, lo stesso hardware che permetteva di fare determinate cose piuttosto innovative era comunque un hardware di quegli anni, coi limiti di quegli anni. All'epoca, tipicamente, un videogioco da sala aveva sedici o trentadue colori, ma loro si stabilirono su una via di mezzo da ventisei. Effettuarono una serie di riprese in video di giocatori da playground che eseguivano vari movimenti sul campo, utilizzando uno sfondo blu per poter effettuare poi gli scontorni del caso. Solo che tutta l'inesperienza si manifestò nell'illuminazione deficitaria e nella decisione, come dire, poco saggia di far indossare ai giocatori delle divise blu. Al di là di questo, per tornare sul discorso dei limiti hardware, la qualità delle riprese su nastro non era esattamente limpida.

Dovettero ritagliare a mano ogni singolo fotogramma, per poi ritoccarlo alla bisogna. A quel punto, idearono un sistema per l'inserimento dei volti “famosi” sui corpi dei giocatori da playground digitalizzati. In pratica, trattarono le teste come se fossero state armi da fuoco in uno sparatutto stile Contra: degli oggetti separati da legare ai corpi dei personaggi virtuali. Prepararono diverse inquadrature e diverse versioni delle teste da associare ai vari fotogrammi, pescando fotografie da libri e riviste, ma anche registrando partite in televisione. Trovare tutti i materiali necessari fu un incubo e dovettero spesso ricorrere ad espedienti: il grafico finì per disegnare parecchio di persona e, per dire, decisero che, quando inquadrati di spalle, si assomigliavano tutti, quindi si poteva utilizzare sempre la stessa testa. «Sarebbe stato più semplice inventare internet».

Chiaramente, per quanto i testoni digitalizzati siano componente fondamentale del suo fascino, NBA Jam non fu solo grafica. Dal punto di vista del gameplay e, in generale, del motore di gioco, ci furono diversi ostacoli da superare. Fu per esempio un grosso problema far funzionare la meccanica di passaggio della palla, soprattutto considerando quanto era importante, per un gioco dall'impostazione arcade, mantenere costanti flusso e ritmo di gioco. Nel prototipo, il ricevitore si fermava ad attendere il passaggio e fu molto complicato fare in modo che continuasse a correre ma anche che facendolo non finisse fuori dal campo: doveva cambiare direzione e la palla, nel suo movimento, doveva tenerne conto. Inoltre, venne introdotta l'idea di tenere premuto un tasto per spingere il giocatore alla schiacciata, facendolo dirigere automaticamente verso il canestro (in NFL Blitz, lo stesso concetto sarebbe stato utilizzato per far lanciare il giocatore verso un avversario da placcare).

Gli elementi più assurdi della simulazione, invece, nacquero quasi per caso. Per esempio, le schiacciate altissime, completamente surreali, si manifestarono un giorno nel gioco perché per sbaglio era stato inserito un numero troppo alto come variabili. E ci si rese conto che era una cosa spettacolare. Non tutti erano d'accordo, ma Eugene Jarvis, mentore di Mark Turmell, pensava addirittura che non fosse abbastanza. Spingeva sempre perché si alzasse tutto oltre misura, per fare sempre di più. “Apri tutto”. La possibilità di frantumare il tabellone venne inserita nonostante il team temesse che la NBA non avrebbe approvato. Non volò una mosca ma, in effetti, l'anno dopo venne richiesto di toglierla da tutti i giochi. L'utilizzo del fuoco venne sancito durante un pranzo da Burger King, nel quale si presero svariate decisioni sul marketing e sul gioco. Ci furono lunghe discussioni ma alla fine si decise di infilare le fiamme nel gioco e si optò per le esplosioni di Smash TV.

I membri dello studio di sviluppo giocavano per soldi o per merendine, ma Turmell conosceva tutti i valori del gioco a memoria e vinceva sempre.

Una critica ricorrente a NBA Jam, nel corso degli anni, è in fondo una critica che chiunque ha fatto, almeno una volta nella vita, a un gioco sportivo: la CPU bara un po’. E, beh, sì, è vero: in NBA JAM, la CPU barava un po’. Ogni giocatore aveva delle percentuali di base per le varie mosse e c’era un modificatore che veniva utilizzato per aumentare o diminuire le singole abilità, con ben quaranta variabili per rubate, schiacciate, tiri e via dicendo. Nel team di sviluppo, giocavano costantemente fra di loro e cercavano di bilanciare il gioco più possibile. Volendo, era anche possibile disattivare i modificatori, ma di base il team aggiornava il gioco anche seguendo le statistiche registrate nel CMOS.

Studiavano come e quanto giocasse la gente, fino a che punto della partita, da quale delle quattro postazioni si vinceva di più, qualsiasi tipo di statistica, e basavano su quei dati le modifiche da apportare. Tra l’altro, una cosa abbastanza netta era il fatto che i giocatori inserivano un gettone per proseguire la partita solo se il risultato era in bilico e per questo venne inserito un parametro simile all’elastico dei giochi di guida, per mantenere i risultati equilibrati.

Inoltre, NBA Jam era pieno di segreti, avrebbe potuto vantarne altri mai inseriti, li vide aumentare col passare del tempo. C’era un gioco di carri armati nascosto, inserito nel prototipo e lasciato lì per sbaglio, che, una volta attivato, permetteva di giocare gratuitamente. La cosa non fece piacere ai gestori di sale giochi. E ancora, il team di sviluppo aveva inserito alcuni personaggi di Mortal Kombat, ma la NBA li fece togliere. Fu invece grazie al lavoro di Midway che venne inserito Bill Clinton e in generale ci furono sempre più personalità – non solo dell’NBA – che fecero pressione per essere aggiunte al gioco (Turmell ha citato il giocatore di baseball Ken Griffey jr.). Ancora? Quando creato un servizio pubblicitario con le modelle di Playboy inserite come personaggi del gioco, la gente si convinse che fossero davvero presenti e il team decise di aggiungerle con un aggiornamento. Insomma, il delirio.

A un certo punto venne scoperta una vera e propria rete di compravendita di codici segreti del gioco, portata avanti da bambini dal forte spirito imprenditoriale. Forse erano figli del Milanese Imbruttito.

Ma dopo tutto questo successo, che accadde? Beh, la serie andò avanti per un po’, ma poi ci furono problemi con la licenza a causa di un fraintendimento («In NBA pensarono che non volessimo più fare NBA Jam!») e di alcuni movimenti di persone fondamentali. Il marchio NBA Jam finì nelle mani di Acclaim, che sostanzialmente distrusse la serie, ma Midway conservò l’accesso alla licenza NBA e produsse NBA Hangtime e NBA Showtime. Col tempo, però, la passione per quel tipo di gioco si spense un po’. Eppure, l’amore per l’NBA Jam originale sopravvive ancora oggi, al punto che a Los Angeles esiste addirittura un negozio tematico sull’argomento e che certe squadre NBA si sono fatte assemblare versioni aggiornate con all’interno giocatori contemporanei, per utilizzarle in giornate “retro” organizzate ai palazzetti.

Volete altre curiosità? Shaquille O’Neal comprò due cabinati di NBA Jam, uno da tenersi in casa e uno da portarsi in giro con la squadra per divertirsi (e scommettere) durante le trasferte. Ancora? In seguito alla morte di Drazen Petrovic, si diffuse la leggenda metropolitana dei cabinati che si accendevano e iniziavano a sparare la voce di Kitzrow che urlava il nome del giocatore croato. Infine, gli infortuni non avevano alcuna influenza sulle prestazioni dei giocatori. Parola di Turmell.