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Mickey Mouse Mystery Magazine - M for Mature | Paperback

Paperback è la nostra rubrica in cui parliamo di libri e fumetti non legati al mondo dei videogiochi. Visto che per quelli legati al mondo dei videogiochi c’è quell’altra.

La verità è che nella mia vita ci sono sempre state le storie, elemento persistente che mi ha accompagnato in tutte le fasi dello sviluppo.

Prima di essere un lettore, sono stato ascoltatore e spettatore.

Per i miei ero un assillo: chiedevo che mi si raccontassero cose, all’inizio, poi che mi si leggessero. Passo successivo naturale fu imparare a leggere presto e il problema si spostò sul fornirmi materiale adatto alla mia giovane età, che non turbasse la mia evidentemente eccitabile immaginazione.

Problema semplice da risolvere, nel momento in cui l’edicola passava il settimanale di Topolino, quando ancora era edito Mondadori, durante gli anni Novanta.

Fu un amore facile a sbocciare.

La mia generazione fu graziata nascendo in un momento particolarmente felice per la produzione Disney e i film con i quali mi nutrivo avidamente, in cassetta prima e al cinema poi, erano tutti eccellenti: La sirenetta, Aladdin, La bella e la bestia, oltre ai classici e ad un Basil l’investigatopo che probabilmente fece nascere in me l’amore per il giallo.

Il primo film che mi portarono a vedere al cinema fu Il Re Leone, anche se onestamente non ne ho ricordi.

Una delle mie foto più vecchie mi ritrae su di una chase longue a casa di mia nonna, con un Topolino in mano.

Di fatto, a Topolino e alla Disney devo la prima parte della mia educazione letteraria e della formazione di quelli che hanno costituito la base dei miei gusti. Sul Topo c’era tutto per dotare un bambino degli anni Novanta del suo nucleo di affezioni: l’avventura, l’esotismo, il mistero, il giallo. I classici della letteratura rifatti. I classici del cinema rifatti. Indiana Pipps e Paperinik, anche se all’epoca già edulcorato da ladro gentiluomo a supereroe.

C’erano le cacce al tesoro di Zio Paperone, sempre preferite alle storie ad ambientazione urbana.

E ovviamente Topolino che indagava, costantemente coinvolto dalla polizia di Topolinia nella risoluzione di casi misteriosi. Bellissimo. Di quando l’appellativo “amico delle guardie” indicava soltanto una persona molto amichevole.

Nel 1999, Ezio Sisto, Simone Stenti e Alessandro Sisti decisero di operare su Topolino come già avevano fatto con grande successo su Paperinik con PKNA (PaperiniK New Adventure), non proprio reinventando, ma tenendo salde le radici del personaggio e operando sul contesto per farne qualcosa di diverso.

Quello che per Paperinik fu la Ducklair Tower, l’elemento alieno che stravolge il quotidiano del vigilante di Paperopoli, per Topolino fu la città di Anderville.

Volendo virare le “classiche situazioni di Topolino indaga” al nero, il setting di Topolinia era stretto e troppo luminoso; la sua città natale è luogo troppo rassicurante, dove il Topo è radicato e ben conosciuto troppo bene.

Il cambio necessitava di una location nuova, aliena, che costituisse una sfida diversa e frustrasse il suo status consolidato. Anderville è il noir che irrompe nella vita di Topolino, senza preamboli.

Il numero 0, vera e propria dichiarazione di intenti, è frutto di una fra le più gioiose accoppiate del fumetto Disney italiano: Tito Faraci e Giorgio Cavazzano.

Concepita come diametralmente opposta a tutto ciò cui eravamo abituati, Anderville è una location affascinante e densa, sconfinata e oscura.

Tito Faraci la riempie di umorismo paradossale e Cavazzano le dà forma modellandola come una metropoli ricca di superfetazioni, che ingloba periodi e stili in un unico sconfinato conglomerato: più che aprirsi davanti agli occhi del lettore, gli si para davanti come un muro.

Moderna e antichissima, sporca e trafficata, Anderville unisce elementi art nouveau ad americanismo spinto, fatto di case popolari in mattoni, cartelloni pubblicitari e tavole calde rubate per forma e posizione a Hopper, sulle quali svetta una “città alta” che ammicca al futurismo di stampo santeliano

Non solo, c’è anche un po’ di Gotham City, ad Anderville: l’ispettore Jan Clayton è chiaramente ispirato per baffi e outfit al Commissario Gordon di Batman e la sua collega è sputata identica la detective Renè Montoya.

Se da un lato, a un treno di distanza, Topolinia costituisce un’utopia positivista luminosa, dove la giustizia è una certezza e il bene trionfa sul male, Anderville è il trionfo del mezzo tono, un non luogo che vive solo nelle metropoli tratteggiate della narrativa hard boiled, che la coppia Faraci-Cavazzano non perde mai occasione di omaggiare con i cliché del genere.


In primo luogo, la serie riscrive il passato di Topolino, gli regala una carriera universitaria da primo della classe e lo qualifica come criminologo laureato.

Tutto inizia lì, in un punto ben preciso della vita del Topo, quando frequentava l’università a Topolinia con un compagno di stanza scapestrato ma ben intenzionato, che sognava di aprire un’agenzia investigativa.

L’azione è innescata da una lettera, un lascito, l’amico dei vecchi tempi dell’univeristà Sonny Mitchel è scomparso e Topolino viene convocato ad Anderville per sbrigare alcune faccende dell’agenzia investigativa, di cui si scopre socio. Lo stacco per lui è quasi traumatico e la sua ingenuità viene messa a dura prova da un contesto così estremo, troppo più “cattivo” rispetto a lui.

Faraci cambia il tono, lo sporca, per quanto sia possibile sporcarlo in un mensile di Topolino, venandolo di sarcasmo. La comicità è tutta giocata sul contrasto coi modi ingenui e fanciulleschi di Topolino, che deve impegnarsi per restare a galla fuori dal suo ambiente. Ma Topolino è un puro, uno che il male in faccia non lo ha mai guardato e approccia al mezzo tono di cui sopra con la caparbietà di chi sa come vanno le cose e non si fa capace che queste possano andare diversamente. Non coglie il disordine delle cose del mondo e pertanto si deve impegnare per risolvere i casi che gli vengono presentati con il suo approccio, senza lasciarsi contaminare dalla forma edulcorata di “male” e corruzione che si annida ad Anderville. Tra le righe, ci sono sottintesi temi come le divergenze sociali: non più la sconfinata ricchezza di un Paperon de Paperoni che fa il bagno nelle monete d’oro, ma la divisione tra quartieri alti e case popolari all’interno della stessa città.

Così fanno anche capolino la criminalità organizzata come entità stabile persistente sul territorio, i sicari a pagamento, la corruzione che contamina le istituzioni, gli insabbiamenti.

È interessante come questo costituisca un fattore di crescita per il lettore che, una volta svezzato, viene lanciato nel mondo che è diverso da quello di cui è abituato a leggere nei fumetti. Per cogliere la “rudezza” della situazione, è necessario guardarla con gli occhi del bambino: come passare da Agatha Christie a James Ellroy. A modo suo, Topolino assecondava il passaggio del lettore da una stagione della vita all’altra. Indurendosi, cercava di addolcire il confronto con la realtà.

Dopo ventun’anni, di questa serie è rimasta la forte sperimentazione tematica, che ha avuto influssi estremamente positivi in tutta la produzione disneyana italiana d’autore. Nonostante la serie si sia conclusa con il numero 11, la stessa sperimentazione ha per anni animato le testate di PKNA. A quell’epoca non lo lessi, lo vidi in mano a qualche bambino e sulle rastrelliere delle edicole. Avevo otto anni ma ero in target senza saperlo.

Lo recuperai molti anni dopo, con la scoperta del meraviglioso mondo dell’internette, soddisfacendo finalmente una curiosità che mi portavo dietro dall’infanzia, trovandolo una lettura estremamente godibile, grazie alla sua magistralmente orchestrata atemporalità.

L’anno scorso, al Napoli Comicon, quando incontrai Tito Faraci, gli strinsi la mano e lo ringraziai per essere stato uno fra i pilasti inconsapevoli della mia formazione culturale.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Disney Club”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.