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Chi controlla l'informazione controlla il mondo: tecnologia e potere in Metal Gear Solid

Scrivendo questo pezzo, ogni tanto, butto un occhio sul mio orologio. Non solo perché ho questa brutta ossessione di controllare l’ora ogni cinque minuti ma anche perché mi piace da morire il mio nuovo watch face: una replica esatta del codec di Metal Gear Solid, che in un inglese maccheronico mi informa: “Snake, it’s sabato febbraio 2”. D’altronde quando il buon Maderna mi ha chiesto di scrivere un pezzo sulla sci-fi giapponese, la primissima cosa che mi è venuta in mente è stata proprio l’opera di Hideo Kojima. Cosa c’è di più interessante del discorso tecnologico contenuto in Metal Gear Solid? Niente. Controllo l’ora l’ultima volta e vi spiego il perché.

Che Kojima sia un personaggio complesso lo sappiamo tutti. È un autore in un settore in cui l’autorialità non è certo un carattere richiesto. Sotto la spessa scorza carpenteriana e muscolare, Hideo è un fine pensatore, che riesce a mescolare il kitsch e le elucubrazioni filosofiche. Se volessimo individuare un macrotema che ama trattare nei suoi fantapipponi, sicuramente dovremmo puntare i riflettori proprio sull’aspetto tecnologico. Perché quest’ultimo, nelle sue storie funziona a più livelli, regalando al videogiocatore suggestioni che si aggrappano all’omino del cervello e non lo mollano più. Nemmeno negli anni a venire. Anzitutto, funziona a livello narrativo: i Metal Gear Solid sono strapieni di aggeggi tecnologici alla James Bond. Ed è un aspetto interessante non solo nei capitoli palesemente futuristici ma anche in quelli ambientati nel passato come Snake Eater e The Phantom Pain. In questo caso, infatti, Kojima ha preso spunto da tecnologie esistenti e le ha esasperate: il Fulton era un esperimento della C.I.A. per recuperare i soldati in zone di guerra, la protesi meccanica di Venom Snake è un poutpurri di suggestioni sci-fi anni Ottanta, lo stesso Shagohod è ispirato a un prototipo di carro armato russo. Ma Kojima ha pescato a piene mani anche dall’horror: non mancano vampiri, uomini invisibili, persino mostri di Frankenstein, il tutto razionalizzato (più o meno) dalla tecnologia. Il migliore amico di Solid Snake è tenuto in vita da innesti cibernetici che lo hanno trasformato in una macchina, stesso destino toccato all’altro protagonista della saga, Raiden. E poi c’è il codec, il fox die, i visori termici, i droidi da combattimento, la railgun, i giganteschi robot dinosauri. La tecnologia è sicuramente punto chiave della fabula intessuta da Kojima.

Scendendo di un livello, però, si entra nel vivo del discorso, perché attraverso la tecnologia, Kojima parla di politica. E qui le cose si fanno più complesse, specialmente perché, quando è uscito Metal Gear Solid 2, tutti noi ragazzini che avevamo giocato al primo capitolo stavamo ancora lì a cercare di capire la astrusa filippica sulla genetica. Il problema di Metal Gear Solid 2 è che lui era dieci anni avanti e noi dieci indietro.

Nel secondo capitolo, la questione diventa: chi controlla l’informazione controlla il mondo, e chi controlla la tecnologia controlla l’informazione. Un input in realtà presente fin dal’episodio precedente (a Snake vengono tenute nascoste così tante informazioni da renderlo una marionetta nelle mani dei potenti) ma è nel secondo Metal Gear Solid che viene fuori esplicitamente. Kojima parla di overflow informativo, ovvero la tendenza dei media a darci in pasto più dati di quelli che ci servono. Ecco spuntare i Patriots, intelligenze artificiali che governano il mondo rincoglionendoci di televisione e internet per agire sottobanco indisturbati. E Kojima sembra interrogarsi e interrogarci: siamo sicuri che tutto ciò che ci raccontano sia ugualmente importante? Chi decide cos’è importante sapere e cosa no? E questa decisione a monte non è per caso una sorta di censura? Un punto che diventa focale in tutti i capitoli successivi: Snake Eater (The Boss ha davvero disertato?), Guns of the Patriots (il mondo può essere ridotto a una serie di 0 e di 1?) e The Phantom Pain (chi è davvero Big Boss?). Non si tratta solo del plot twist finale ma proprio del modo diegetico in cui questi dilemmi vengono posti al giocatore. E qui si scende ancora più in profondità o, a ben vedere, si sale in superficie.

Perché è attraverso la tecnologia, attraverso i videogiochi, che Hideo Kojima ha deciso di raccontare le sue storie. L’autore giapponese è conscio del potere sulla sua opera e indirettamente sul giocatore, che punzecchia di continuo: sei sicuro di avere capito il potere della tecnologia? E se qualcuno la controllasse? Se riuscisse a farti arrivare una informazione invece di un’altra? Questa volta, i Patriots non c’entrano, il discorso è ancora più stimolante. Parliamo di Kojima stesso. Fa questo giochino con Metal Gear Solid, quando Psycho Mantis legge il contenuto della memory card, o col colonnello alla fine del secondo capitolo, che inganna il giocatore dandogli informazioni false, parlando a sproposito, facendo scattare il game over mentre il gioco sotto continua ad andare. Lo ha fatto anche quando, dopo anni di campagna pubblicitaria, dopo una demo giocabile, e dopo aver lanciato sul mercato uno dei sequel più attesi di tutti i tempi, ha semplicemente tirato fuori Solid Snake dall’equazione Metal Gear Solid 2. Infine, mi piace pensare che il finale della saga, quello di The Phantom Pain, con il colpo di scena alla Keyser Soze, sia un po’ la summa di vent’anni di discorsi su tecnologia e potere. E che quel sorriso finale significhi: “Visto? Ve l’avevo detto.”

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.