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Guscio senz’anima?

Se sei da queste parti, quasi sicuramente avrai sentito parlare di Ghost in the Shell. Il film con Scarlett Johansonn? Sì, anche quello. O gli anime di Mamoru Oshii, che, diciamocelo – dai - giocano in un’altra categoria? Esatto, pure quelli! Allora c’è anche il videogioco di THQ per PlayStation? Vabbé, ora si esagera, ma se così non fosse, probabilmente non ti troveresti qui… E questo vuol dire che magari c’eri già anche nel luglio del 1992, quando uscì il primo numero di Kappa Magazine, testata ammiraglia di Star Comics per altri 172 mesi, con il primo capitolo del fumetto Ghost in the Shell di Masamune Shirow (nato Masanori Ota, classe 1961)

Sarebbe ingiusto dire che non si era mai letto nulla di simile prima, perché comunque Shirow ci aveva già regalato perle come Black Magic (inizialmente autoprodotto), Dominion Tank Police e, soprattutto, Appleseed, pietra di paragone del genere cyberpunk fino a quel momento.

Solo che nessuno aveva mai visto prima tavole dinamiche e ricche di dettaglio come quelle di Ghost in the Shell. Per di più riproposte a colori anche nell’edizione italiana. Dietro a quello spettacolare segno grafico, c’è una storia che tratta di tanti temi, lasciando quasi in secondo piano il viaggio dell’eroe (eroina, per la precisione, come tutti gli altri protagonisti delle sue opere), per concentrarsi sulla costruzione di un mondo futuro plausibilmente inquietante. La potenza di quella visione è la quotidianità. Qualcosa che puoi mostrare solo in un manga serializzato o in un romanzo e che difficilmente riesci a comunicare in maniera convincente in un film (e questo è probabilmente il limite più grande dell’adattamento di Paramount Pictures).

Caratteristica principale dell’opera più famosa di Shirow, così come di tutte le altre, in realtà, non è quindi lo sviluppo dell’arco narrativo della protagonista, come dicevamo, quanto l’approfondimento del contesto di riferimento. Tutto ciò che appare inchiostrato sulla tavola ha una ragione d’essere, tant’è che le raccolte in tankobon delle sue opere contengono sempre un’enciclopedia finale, adoperata per descrivere sistemi politici ed economici, oltre al funzionamento di armi e di altri oggetti d’uso che appaiono in scena. Senza quelle preziose guide, è molto facile perdersi o vedere solo la superficie patinata di una visione molto più vivida e intensa.

Una visione pessimistica, in cui l'anima sarebbe solo un software e la biologia umana una forma di tecnologia. Un riduzionismo così radicato da prendere la forma di vera e propria "religione", all’interno di uno scenario esasperatamente informatizzato, in cui ogni forma vivente ha innesti tecnologici e ogni tecnologia ha qualcosa di “vivente” al suo interno.

Ma la capacità più impressionante di Shirow è quella di riuscire a rendere tutta la dinamicità delle scene d’azione (anche dei conflitti “interiori” vissuti dai cyborg connessi alla rete) semplicemente con il tratto grafico e l’inquadratura. La sequenza iniziale, in cui il maggiore si lancia dal tetto del grattacielo con la tuta olografica, ha segnato l’immaginario collettivo di un’intera generazione. Quella stessa generazione che, in epoca pre-pornografia online (oggi è difficile capire quanto faccia la differenza a livello sociale), si trovò stampata a colori nelle prime pagine del secondo episodio una scena saffica piuttosto vivace, con Motoko Kusanagi intenta a raggiungere nuove vette di piacere, stimolando tramite degli hack la propria soglia percettiva.

Perché ti parlo proprio di questo? Non tanto per la voglia di condividere un ricordo intimo, quanto perché la successiva produzione del maestro seguirà proprio quello come leitmotiv, muovendosi tra l’erotismo patinato e la pornografia d’autore. Mischiando segno grafico, modelli 3D, texture fotografiche e colorazione digitale (una tecnica peculiare, conosciuta tra gli appassionati proprio come “shiromasa”), la seconda parte della carriera del mangaka di Kobe si concentra sulla gestione delle licenze di Ghost in the Shell e Appleseed, diventati veri e propri franchise, e sulla realizzazione di pin-up per varie riviste, fino alla pubblicazione di volumi (in grande formato) con le vicissitudini erotiche delle sue “conigliette” (tra le altre cose, si occupa anche del character design di svariati videogame, per esempio Fire Emblem: Shadow Dragon, ma ai fini della discussione, poco ci importa).

Ciò che tiene unita questa sterminata produzione grafica, successiva al capolavoro di una vita (sì, è vero, c’è anche Man Machine Interface, ma il racconto è così convoluto che in pochi lo considerano il seguito di Ghost in the Shell) è la ricerca del magico elisir che riesce a condurre oltre le soglie della percezione comune del piacere. Mentre Galgrease riprende tematiche già viste in ambito cyberpunk, altri mondi spaziano nei generi più diversi, dal western fantasy a un leggendario Giappone feudale.

Data la natura del contenuto, chiaramente esplicito nonostante la censura dei genitali, il materiale più recente di Shirow non ha mai completamente raggiunto l’occidente, pur parlando di una sfera dell’esistenza umana che riguarda ogni individuo su questo pianeta. Come se ad un certo punto fingessimo che l’opera di Milo Manara si fosse fermata a Giuseppe Bergman (chi ha detto “Adrian”? Via di qua, subito!). In realtà, è proprio la voglia di sperimentare dell’autore che lo porta ad allontanarsi dal manga (scrive i testi per Pandora in the Crimson Shell, disegnato da Koshi Rikudo, di prossima pubblicazione anche in Italia), per dedicarsi a un formato più congeniale, l’art book. Le nuove storie nascono infatti dalla mole di minuzie che abita queste tavole così riccamente illustrate, al punto da portare il lettore/spettatore a un intenso stordimento visivo, che corre parallelo allo stordimento edonistico delle protagoniste, raffigurate da ogni angolazione in conturbanti contorsioni, che si sovrappongono senza soluzione di continuità. Proprio come se l’autore tentasse di distillare su una superficie piana dai confini rettangolari tutte le sfumature della dimensione onirica dell’erotismo.

Un guscio senz’anima solo all’apparenza, quindi. Piuttosto, una riflessione eccessivamente vivida sulla fragilità della natura umana, attraverso una tavola grafica processata al computer.

O, semplicemente, ottima pornografia.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.