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Racconti dall'ospizio #141: Favola di Venezia

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Avviso per i lettori: questa storia non ha un lieto fine.

Durante l’autunno del 1998, mi era preso lo sfizio di trasferirmi a Venezia a tempo determinato. Durante il primo anno all’Università, non avevo combinato un cazzo, ché stavo ancora cavalcando l’onda lunga del trentasei con cui mi avevano miracolosamente espulso dal liceo. Così, in attesa della chiamata alle armi (cioè, al Servizio Civile), avevo messo da parte qualche soldo distribuendo rubriche telefoniche in zona Lecco.

- A margine: è davvero una menata distribuire roba, da quelle parti. Ci sono certi paesini di montagna completamente sperduti nel nulla. Raggiungibili esclusivamente a piedi, attraverso orribili sentieri in salita e abitati da un pugno di anime che hanno comunque diritto alla loro brava copia delle Pagine Gialle. Però, vai a sapere, capace che oggi facciano tutto con i droni. -

Comunque, Venezia. Per sperimentare il brivido della vita da adulto (?), avevo preso una stanza  in affitto presso la casa di certi amici che studiavano in zona. Era, in effetti, una casa davvero orribile: umida, fredda e piena di rogne idrauliche come la maggior parte delle abitazioni da studenti veneziane, con dei proprietari davvero stronzi che non rispondevano al telefono nemmeno quando i ratti uscivano dal cesso. Ciononostante, all’inizio di settembre a queste cose ancora non ci badavo: passavo quasi tutto il giorno dietro ai film del festival tipo Salvate il soldato Ryan (proiettato in una piazzetta e visto a scrocco appollaiato su una tettoia), Celebrity, The Truman Show, Così ridevano (Leone d’oro), Out of Sight, Ronin e The Opposite of Sex. Quest’ultimo, va detto, davvero scadente; eppure era impossibile resistere al lolitismo di Christina Ricci, da poco emersa dalla pubertà con due zinne notevolissime.

OK, 'sta foto viene da Anything Else. Ma insomma, ci siamo capiti.

Insomma, tutto bello, tutto divertente - feste, ombrette cazzi e mazzi - fino a ottobre. Sì, perché quando i miei coinquilini diligenti ripresero a frequentare le rispettive facoltà, mi ritrovai a mollo nella solitudine. Oggi la cosa non sarebbe un gran problema: tra Netflix, videogame, libri e fumetti, ho maturato l'abilità di sopportare l’ozio più smodato per settimane intere. Tuttavia, all’epoca il bagno di folla del liceo mi aveva rammollito e proprio non mi riusciva, di stare bene per i fatti miei.

Poco a poco, cominciai a deprimermi. Tempo qualche settimana e già ero stato risucchiato dall’ovatta dell'autunno veneziano, che, a seconda della disposizione d’animo, può essere la cosa più figa del mondo o quella più pallosa.

In più, oltre alla melma delle tubature, era venuto a galla anche l’altro grosso problema di quella città (almeno per me): la totale, straniante, assenza del rumore delle automobili. Ora, finché uno non ci fa caso, non ci fa caso. Ma quando si inizia a notare ‘sta cosa, è finita. Si entra in una bolla di irrealtà che non lascia scampo, tipo quella de Il prigioniero.

Intanto, oltre ad essere diventato una specie di domestico per i miei coinquilini, passavo le giornate a zonzo per la città alla ricerca di qualche intreccio interessante, come nelle storie di Corto Maltese o nei film di Indiana Jones. Ovviamente, considerate la mia assoluta deficienza di senso dell’orientamento e le scarse infrastrutture dell’epoca (al  primo iPhone mancavano circa una decina d’anni e i telefonini a Venezia non prendevano da nessuna parte), mi perdevo regolarmente.

In un paio di occasioni, mi è capitato di ritrovare la via di casa solo dopo la mezzanotte. E non ricordo nulla di magico o esoterico in quelle passeggiate; solo il terrore di essere borseggiato, accoltellato, o semplicemente di passare la notte all’addiaccio. Intanto, gli intrattenimenti diurni si facevano sempre più radi. Sdoganata l’unica fumetteria della città, attaccai a bazzicare le biblioteche ebraiche (ero affascinato dai golem) e quelle di studi orientali (samurai, ninja, ça va sans dire). Finivo quasi sempre per leggiucchiare cose a caso fingendo di essere uno studente, ché evidentemente all’epoca non ero pronto per abbracciare pienamente la mia anormalità.

Ah, Venezia! Con la sua torre pendente.

Dopo due mesi di quella vita, sentivo di essere prossimo al punto di rottura. La notte, senza i rumori di auto e motorette, proprio non mi riusciva di dormire. Tolti i fine settimana vagamente festaioli, le giornate erano diventate un mix di noia, ansia; noiosissimi CD degli Üstmamò e di Sinéad O'Connor appartenenti a una coinquilina radical e fanzine universitarie dalla qualità altalenante.

Anche la faccenda del cucinare per tutti e pulire casa mi aveva francamente rotto il cazzo. Ormai ripiegavo su pizze al cartone, precotti e cose così. Fu proprio durante una spedizione in cerca di cibo, in un pomeriggio come tanti, che finii col perdermi per l’ennesima volta. Strano, perché almeno il percorso verso il supermercato lo conoscevo e a tutt’oggi sono ragionevolmente sicuro di aver preso tutte le biforcazioni giuste. Si vede che ero partito dal punto sbagliato.

Dopo aver cercato la via di casa per un’ora buona seguendo gli unici punti cardinali che conoscevo - Piazza San Marco e Rialto - ero ancora completamente disperso. Iniziava a fare scuro, freddo, e per la testa mi frullavano i racconti di certi cadaveroni ripescati settimanalmente dai canali.

Proprio mentre mi vedevo già bello gonfio e con gli occhi fuori dalle orbite, mi trovai davanti a un negozietto di videogiochi. Il primo mai visto a Venezia. Magia! Un negozio alla vecchia maniera, curato, dedito all’importazione parallela ed evidentemente gestito da gente appassionata. Mi ci tuffai. Appena entrato, a fianco di qualche hit come il secondo Tomb Raider, Banjo-Kazooie, F-Zero X o MediEvil, notai un Neo Geo su cui girava un qualche The King of Fighters ('98?). Ricordo anche un Parasite Eve, quasi sicuramente giapponese; sicuro Soulcalibur e forse Ehrgeiz, assieme a un mucchio di altra roba.

«Ho la sensazione di esserci già passata tre volte, da qua.» 

Tuttavia, ad accendere la mia attenzione fu soprattutto un già anacronistico Super Nintendo attaccato al televisore, sul quale girava un Joe & Mac. Dico “un”, perché francamente non ricordo se si trattasse, in effetti, della conversione del primo capitolo, lanciato nel mercato coin-op da Data East nel 1991; oppure di Joe & Mac 2: Lost in the Tropics, noto in Giappone e in Europa come Joe & Mac 3 per via di uno di quei casini di sequel mezzi apocrifi à la Super Mario Bros. 2. Di contro, ricordo molto bene il calore e il senso di familiarità che mi trasmisero i due cavernicoli dai capelli colorati, le piattaforme, i dinosauri e tutto il negozio in generale.

Screen a caso di Joe & Mac, da vero paraculo.

Immediatamente, l’interruttore nella mia testa si spostò dalla modalità “Venezia merda” a quella “baretto al mare”. Dopo tanto vagare in un mondo composto da una moltitudine di callette e variabili (o di callette variabili), proprio come quel tizio di Lost, avevo trovato la mia costante. Anche oggi, dopo un po’ che sono fuori casa, inizio a sentire il bisogno di costanti. In genere mi accontento di poco: un multisala, un McDonald’s o un Burger King. Cose che dove le metti sono sempre uguali, ma che proprio in virtù della loro familiarità, sono in grado di aprire buchi spazio-temporali dove posso rifugiarmi per qualche ora. Giusto il tempo di tornare in bolla.

Tuttavia, a quel giro avevo pescato la Cadillac delle costanti. Scambiata qualche parola di cortesia col proprietario, mi attaccai al pad di Joe & Mac, e non lo mollai fino all’orario di chiusura. A quel punto, giustamente, mi scoparono fuori dalla porta.

Ora, mi piacerebbe chiudere con un lieto fine. Tipo che uscito dal negozio trovai facile la via di casa. La verità è che vagai per Venezia ancora un paio d’ore. Però ero sereno, rinfrancato; In lontananza, mi pareva quasi di sentir girare il motore di una Volvo.

Da lì a qualche settimana arrivò la chiamata per il Servizio Civile; levai le tende, e non mi riuscì più di ritrovare quel negozietto di videogiochi. Forse, non è mai esistito, era solo un prodotto della mia immaginazione spinta al limite. Oppure, vai a sapere, si trovava proprio dietro casa.

Questo sarebbe stato il momento giusto per fermarmi e lasciar perdere la lisca proibita.

E invece, carramba! A quanto pare il negozio esisteva davvero. Proprio in questo istante, alle 2:08 AM di venerdì 22 giugno 2018, attraverso una ricerca su Google Maps iniziata per sfizio e finita in tragedia, ho scoperto che si chiamava Virtualia Videogames & Movies, con sede a Cannaregio 4658 (in effetti, non così lontano da dove abitavo all’epoca). Ho usato il tempo passato perché, purtroppo, il negozio ha chiuso i battenti qualche mese fa, a circa vent’anni dalla mia prima e unica visita.

Sapevo che non avrei dovuto scartabellare tra le cose del passato. Ma non ho resistito e sono stato punito. Stando ai necrologi su Facebook, pare che Virtualia fosse molto amato dai suoi frequentatori abituali:

E potrei continuare a postarne altri, di questi messaggini (@giopep, nel riportare le recensioni ho mantenuto gli strafalcioni originali, eh). Ma non ce la faccio, ché mi è appena finita una bruschetta nell'occhio. Vaffanculo, Venezia. Vaffanculo, Joe & Mac!

Addio, e grazie per quel poco di ottimo pesce che ti ho scroccato vent'anni fa. E poi dicono che a Venezia si mangia male...

Questo articolo fa parte della Cover Story “Jurassic Outcast”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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