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Golden Axe, l'istinto di un uomo (e di una donna, e di un nano) | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

All’uscita di Golden Axe, nel maggio del 1989, il Giappone aveva da poco incoronato l’imperatore Akihito, lasciandosi alle spalle il lungo e complesso periodo Shōwa per abbracciare con vigore la nuova era Heisei. Gli orrori della Seconda Guerra Mondiale erano ormai un ricordo per quella nazione che, a seguito di uno sforzo pazzesco, era riuscita a diventare una fra le principali potenze mondiali e la mecca della tecnologia.

Era, quello lì, lo stesso Giappone che noialtri ragazzini spiavamo attraverso Orange Road, Maison Ikkoku e Touch, sognando i dolcetti strani, le scuole con l’orologio grande e le divise. I festival estivi con i fuochi d’artificio e gli yukata, e quelle gare sportive che ci potevi costruire sopra un’epopea, ché i nostri Giochi della gioventù il cazzo, proprio.

Eppoi, naturalmente, quello della primavera del 1989 era il Giappone dei videogiochi raccontato tanto bene da High Score Girl, con le sale, i coin-op luccicanti e tutto l’ambaradan.

Haruo, il giovane protagonista di High Score Girl, davanti a un cabinato di Golden Axe.

Migliaia di finestre se ne stavano lì, spalancate e a portata di ragazzino su mondi in pixel colorati come non mai. Praterie tondeggianti e piattaforme popolate da draghetti, kiwi e arcobaleni. Intere galassie dove sfoderare pod e armi al plasma, oppure bronx violentissimi dove menarsi fino alla morte. Qualche volta, i mondi di gioco afferivano a mitologie esotiche o al fantasy europeo, al netto di quella patina orientale e pop che persino noialtri che vivevamo in Brianza sentivamo vibrare a pelle.

Golden Axe, il secondo titolo sviluppato per System 16 da Makoto Uchida, apparteneva proprio a quest’ultima categoria, quella fantasy. Pare che dopo il fortunatissimo Altered Beast, i pezzi grossi di SEGA presero da parte Uchida e gli chiesero di creare un gioco d’azione in grado di tenere testa a Double Dragon. Bisognava ragionare su un picchiaduro a scorrimento cercando di evitare, se possibile, l’effetto clone, e introducendo qualcosa di nuovo. Il nostro decise di allontanarsi dall’estetica metropolitana a favore di quella “sword & sorcery” e, per entrare in argomento, si lasciò sprofondare tra le pagine de Il Signore degli Anelli, dopo aver consumato la videocassetta di Conan il barbaro a furia di rivederlo.

Da queste premesse prese forma la mitologia di Golden Axe. Una mitologia semplice, ma estremamente centrata: nei tempi antichi, le divinità a presidio del mondo di Yuria (il nome compare solo nel manuale inglese del gioco) vennero attaccate da una stirpe di malvagi giganti venuti da chissà dove. La battaglia che ne seguì fu lunga e sanguinosa, ma alla fine il potere degli invasori venne contenuto e i superstiti, per impedire il ripetersi di un simile bagno di sangue, forgiarono un’ascia dorata avvolta da poteri divini.

Ne seguì un periodo di pace, interrotto solo quando un discendente dei giganti, Death Adder, con uno stratagemma, si impossessò dell’ascia e iniziò a fare danni a destra e a manca, arrivando a rapire la famiglia reale.

=LVI.

Fin qui siamo sulla rivisitazione dell’epos tolkeniano, con l’antefatto mitologico, il malvagio di turno redivivo e assetato di potere - sorta di Sauron - e l’oggetto magico.

Con l’entrata in scena dei tre eroi, armati di spade, spadoni e magie, e tutti con un ottimo motivo per fare la pelle al cattivone, viene introdotto l’elemento barbarico. Si parte da Ax Battler, un potente guerriero che intende vendicare la madre trucidata da Death Adder; segue Gilius Thunderhead, un nano proveniente dalle miniere di Wolud, dove il fratello ha lasciato le penne sempre per mano di Death Adder. E naturalmente c’è Tyris Flare, l’amazzone, i cui genitori sono stati sterminati da, beh, avete capito.

Per quanto derivativa e, ripeto, decisamente semplice, la dimensione narrativa di Golden Axe fu cruciale per il sancirne il successo. Al prezzo di un gettone, il giocatore accedeva a un mondo definito e coerente, familiare per riferimenti e assieme misterioso. Questo racconto per azioni veniva esaltato da un ritmo niente affatto banale e da diversi tocchi di classe presenti fin dall’introduzione: Golden Axe si apre in medias res, con l’omicidio di un alleato dei protagonisti, consumato davanti agli occhi del giocatore.

Ascoltando la colonna sonora del gioco al contrario, salta fuori che il personaggio di Alex è un riferimento alla prima mascotte di SEGA, Alex Kidd, uccisa da Sonic.

L’attenzione al racconto traspirava anche dalla caratterizzazione degli eroi, archetipi complementari a livello fisico, cromatico, e naturalmente sul piano delle abilità. Si rifletteva negli avversari e nelle pose dei boss, nella distribuzione spaziale e temporale delle aree di gioco e persino nelle cavalcature, una delle quali, ereditata da Altered Beast, alludeva a un “SEGA-verso”.

Al passo di uno o due alla volta - a seconda delle circostanze, diciamo così, extradiegetiche - gli avventurieri erano chiamati ad attraversare foreste e cittadelle; a solcare il mare a bordo di tartarughe giganti o i cieli con l’aiuto di aquile, a farsi largo a suon di mazzate galvanizzati dai bassi e dalla batteria della colonna sonora di Tohru Nakabayashi.

La testa dell'aquila, nel quinto livello, è nettamente uno dei momenti WTF del gioco.

Queste e altre trovate, come la mappa o i celebri falò dove riposarsi e ricaricare le magie, prese tutte assieme, finivano col tessere sotto ai piedi del giocatore un tappeto narrativo talmente affascinante da spingerlo ad andare avanti anche solo “per vedere come va a finire”. Evidentemente, il successo di Altered Beast aveva trasmesso a Uchida un messaggio molto importante: si può perdonare molto a un gioco, sul piano delle meccaniche, a patto di avere tra le mani una mitologia e una regia interessanti.

Tra l’altro, i due titoli condividono anche il gusto per i finali meta. Così come Altered Beast, dopo l’ultima battaglia, rivelava la sua natura da peplum, alla chiusura di Golden Axe tutti i personaggi escono dal cabinato per invadere la realtà, tipo La storia Infinita.

Va anche detto che Golden Axe, con la sua azione serrata e le meccaniche avvincenti, aveva decisamente meno problemi rispetto al fratello maggiore, e cose come lo scatto, la rotazione dell’arma e altre malizie erano tutti passi avanti per la categoria. Eppure, sono convinto che senza quel lore così efficace, il gioco di SEGA non sarebbe diventato il cult che conosciamo, e probabilmente sarebbe stato spazzato via da quella bomba pazzesca esplosa da Capcom di lì a sei mesi. Mi riferisco a Final Fight, uscito nel novembre del 1989, che, con la sua reattività, portò il discorso dei picchiaduro a scorrimento su un piano del tutto diverso, invecchiando quello che c’era in giro fino al giorno prima.

Ma questa, è un’altra storia.