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GDC 2016 – Il post mortem

Lunedì mattina. Io e Fabio stiamo percorrendo un corridoio del Moscone Center. Abbiamo iniziato la settimana con due appuntamenti fuori dalla fiera, un incontro in albergo con Obsidian, per vedere Tiranny, e un frontale con la follia in uno strano loft, nel quale abbiamo provato Gonner e chiacchierato con uno sviluppatore flippatissimo. Stiamo passeggiando, dicevo, per un corridoio del Moscone Center, diretti verso una qualche conferenza. C'è quell'atmosfera placida da GDC, è tutto molto rilassato, ampio, spazioso, comodo parcheggio. È un luogo dell'anima diverso da quello a cui sei abituato se frequenti questo settore da giornalista. E, a parte il fatto che giornalista lo dici a tua sorella, lo capisci subito. Ancora prima di aver assistito magari alla conferenza che ti fa innamorare. Ancora prima di aver ascoltato Meg Jayanth chiacchierare dei suoi non protagonisti. Ancora prima della solita serata al The Mix con tutti quei giochi indie accatastati uno sopra l'altro e il piacere di chiacchierare con quella gente. Lo capisci, che è troppo bello. Lo capisce Fabio, che me lo dice, mentre camminiamo. “Ma che bello!” Eh, sì. https://www.youtube.com/watch?v=wKBRubHgSTs

Martedì, ora di pranzo. Sono immerso nel sole, seduto a un tavolino, sto chiacchierando con Mata Haggis mentre mi spiega il suo gioco. Mi spalanca un laptop davanti agli occhi, mi metto a smaneggiare con le cuffie in testa mentre giro per Fragments of Him e, quando arriva quel momento, quasi mi vengono gli occhi lucidi. Chiacchieriamo. Chiacchieriamo di quel che fa, di chi è, di dove va, di quel che spera di fare. Mi sento fuori luogo, perché sono un poveretto italiano che scribacchia su siti letti da quattro persone e questa gente ha bisogno di essere portata in braccio dalle urla di un megafono, non dalle mie scorregge nero su bianco, ma faccio il possibile, ci provo. Perché è bello essere qui, è bello essere in un posto così accogliente, in cui tutti si tendono una mano e in cui c'è così tanta gente con così tante cose da dire, senza bisogno di urlare.

Mercoledì pomeriggio. In mattinata abbiamo trascorso un'ora a fare gli scemi in stanza con Ron Gilbert, assaporando quella cosa deliziosa di Thimbleweed Park e chiacchierando amichevolmente con un tizio fantastico. Certo, ci dava retta perché sta cercando di vendere il suo gioco, ma tant'è, c'è comunque quell'atmosfera serena e ammaliante delle chiacchierate alla GDC. Quella delle chiacchierate annuali con Dave Gilbert, che un po' mi mancano. O quella delle meravigliose interviste a Richard Garriott e Jason Vandenberghe. Mi sono anche goduto il post mortem classico di Ms. Pac-Man, delizioso come può esserlo solo un signore simpatico che ricorda i bei tempi in cui era un pioniere della madonna, e lo fa con il figlio seduto in prima fila. E siamo andati a provare i controller surreali, quello da leccare, quello da telefonare, quello da cucire e quello da sbatacchiare. Ebbene, dopo tutto questo, non ricordo di preciso quando, forse mentre ci dirigiamo alla serata degli award (deliziosa e a tratti perfino commovente come al solito, anche se forse un po' più logorroica del solito), sono lì con Fabio, che non ci sta capendo più nulla e lo dice “Oh, l'anno prossimo torno. Per forza.” Eh!

Giovedì, potrei menzionare il ragazzo di Carmageddon: Max Damage che mi insegue nel corridoio dell'albergo per regalarmi una bottiglia di whisky brandizzato. Oppure l'incontro con lo sviluppatore brasiliano che mi fa provare il suo gioco di piattaforme basato sul concetto di altruismo e nel farlo, mentre chiacchieriamo del più e del meno, mi parla di Lorne Lanning, di quanto questa superstar si sia rivelata gentile e pronta a dare una mano a un piccolo sviluppatore che sta facendo qualcosa di interessante, di come in fondo il bello della GDC e della comunità di sviluppatori stia un po' tutto lì. E ci sarebbero anche i Microtalks gestiti da quella personcina adorabile di Richard Lemarchand. Ma giovedì è il post mortem classico di Rez, è Tetsuya Mizuguchi che fa partire la musica di Xenon 2: Megablast, che fa “tunz tunz tunz” e che parla di metafore dello sperma.

Venerdì, l'ansia da neopadre di bimbetta nell'ascoltare donne che elargiscono consigli ed esperienze al pubblico di sviluppatrici, l'ultimo giretto fra gli indie dell'expo floor con gli incontri a caso dei ragazzetti dagli occhi spalancati e sognanti che ti chiedono cinque minuti per mostrarti il loro gioco, D'Alema in Rocket League o magari la raffica di consigli da/per game designer introdotta dal presenzialista Richard Rouse III. Ma la giornata sta tutta nel gran finale, il post mortem classico di Diablo III, piazzato proprio nell'ultimissimo slot, a cui non ero neanche certo di voler andare, perché in fondo del gioco me ne frega pochino, ma cacchio che bello, che simpatico e brillante David Brevik, quanti aneddoti sfiziosi, per non parlare poi del tizio che gli chiede la scatola del gioco e di quell'altro che gli dà i soldi per farsi perdonare di averlo piratato. Ah, che gran bel finale.

Qui ci volevo mettere un super montaggione con tutti i video di noi che parliamo dei giochi provati e sopra le immagini di gheimplei, ma sono troppo stanco e quindi niente.

Sabato. Gli altri sono partiti da un paio d'ore, io ho il volo in serata, me ne sono andato al cinema e ora mi sto facendo un ultimo giretto in centro. Passo davanti al Moscone e non c'è già più nulla, tranne un paio di stendardi. Non c'è neanche il "See you next year". Come sempre, mi coglie quel pizzico di malinconia e dispiacere, anche se quest'anno più che mai la nostalgia di casa e la voglia di tornare sono alle stelle, per ovvi motivi. E, sì, "Oh, l'anno prossimo torno per forza." O comunque ci si prova.

Domenica. Upgrade in business sul volo Londra-Parigi. Bene così.