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Decision to Leave è una splendida delusione

Sono le parole con cui Park Chan-Wook descrive a Variety il suo ultimo film, Decision To Leave. Non vi suonano un po’, beh, deludenti? Se sì, benissimo, io sono qui per dirvi che deludere le aspettative degli spettatori potrebbe essere già un trend. Lo ha fatto anche Rian Johnson con Glass Onion, ad esempio.

Due maestri del plot-twist rinunciano al colpo di scena, oppure no ma per una questione essenzialmente meta-cinematografica, considerato che la rinuncia al colpo di scena è l’ultima cosa che avremmo messo in conto in un film diretto da un maestro del plot-twist. In Glass Onion il sorriso della Gioconda, la cipolla del titolo e una serie di altri metaforozzi alludono all’inestricabile complessità del reale. Pensiamo: “Diamine, la soluzione di questo caso deve essere davvero contorta”. Alla fine però scopriamo che (colpo di scena!) non c’è nessun colpo di scena! La soluzione è quella più semplice - e in effetti la cipolla del titolo è sì una cipolla, ma “di vetro”, quindi trasparente. Delusi? Dipende da quante volte avete fatto il giro. Se non lo avete fatto neanche una volta, immaginando e dando per buona la soluzione più ovvia, forse sì, avete anticipato il film e ci siete rimasti male. Se invece avete immaginato la soluzione più ovvia e l’avete scartata, perché, appunto, troppo ovvia, allora potreste essere rimasti delusi lo stesso, ma un po’ meno, perché Glass Onion rinuncia al gioco di prestigio per costruire un discorso che chiama in causa le nostre aspettative: interessante, da un punto di vista intellettuale, deludente, da un punto di vista ludico.

Stavo per dire che gli Oscar sono arrivati a riscattare l’ingiustizia di cui è stato vittima Glass Onion, nominato per la migliore sceneggiatura ma trattato male da una parte della nostra critica, quando mi sono ricordato che Decision To Leave non è stato nominato a miglior film straniero: che delusione! In realtà non lo so se è una delusione, non ho visto nessuno dei film stranieri nominati ma volevo lamentarmi perché si fa così a ogni edizione degli Oscar e stavolta non vorrei farmi trovare impreparato nel caso in cui vinca Spielberg. Quindi mi organizzo in anticipo: mamma mia che delusione! Decision To Leave merita una nomination (forse) perché è un film molto bello, e lo è in maniera intuitiva: è bello in tutte le sue parti (recitazione, fotografia, colonna sonora) ma soprattutto è bello perché sì, perché lo capisci, ti comunica la sua bellezza in maniera non fraintendibile, non c’è mica bisogno di aver passato un esame di analisi del film per capire che Decision To Leave è proprio bello. La vera domanda è quanti di noi saranno disposti a guardarlo più di una volta, perché si tratta di una bellezza non viscerale, non emotivamente partecipata e quindi - anche questa - potenzialmente deludente, nella sua parte ludica.

Mi viene facile un confronto con Mademoiselle, il precedente film di Chan-Wook Park (ne parlammo qui): pure quello è un mash up di generi tra i quali il melodramma, ma è un film che ha molta voglia di piacere e che, ad esempio, non adotta nessuno dei punti di vista dei personaggi. Il film va avanti e indietro, ripassa su se stesso, salta una scena e poi torna indietro a riprenderla, si esibisce in una serie di acrobazie narrative fondamentalmente motivate dal tenere lo spettatore inchiodato alla poltrona a suon di capovolgimenti e rivelazioni. E poi The Handmaiden è chiaramente un film di Park, lo capisci anche se nessuno te lo ha mai detto, nonostante la violenza risulti solo suggerita (ma quando mai è davvero esplicita nei suoi film? Avete forse visto strappare dei denti o tagliare una lingua in Old Boy? Io no, e ho controllato qualche giorno fa).

“Guarda, tesoro, veramente una delusione che non ti dico.”

Decision To Leave pure è un melodramma, ma parte come un noir: un detective indaga su un’immigrata cinese sospettata di aver ucciso il marito, poi se ne innamora. Nella prima metà la tensione regge perché percepiamo la donna come moralmente ambigua. Come dice Patrick Brzeski su The Hollywood Reporter, “il motore drammatico del film potrebbe provenire da un corteggiamento al gatto e al topo, ammantato di sospetto reciproco ma di travolgente intesa naturale”. È quel “sospetto reciproco” che ci fa annusare il colpo di scena, ma il cuore del film non batte al ritmo del procedural, perché nel frattempo, e poi sempre di più, concede spazio ai momenti di intimità della coppia di protagonisti. Un altro aspetto è che il colpo di scena arriva presto, così presto da dividere il film in due parti, di cui la seconda è più moscia della prima. Preciso che non è un difetto, significa che il ritmo del racconto non è in perenne ascesa ma prima sale e poi scende, mentre si accende nei toni caldi del melodramma - in una scena su una freddissima montagna innevata - e nel melodramma infine si risolve. Chi se lo sarebbe aspettato? Deludente? Beh, ma deludere pare sia il nuovo trend dell’inverno!

Park ha dichiarato che Decision To Leave vuole essere una storia d’amore (e lo è, apparentemente una che concede poco al cinismo che invece abbiamo visto scorrere in alcuni dei suoi film precedenti). Non contiene scene di rappresentazione grafica della violenza, né di sesso, anche il black humour è ridotto al lumicino. Decision To Leave è deludente per chi è andato al cinema per vedere Park fare Park, o per chi è rimasto avvinghiato alla detective story anche nella seconda parte, quando resta ancora qualche colpo di scena che si realizza però stancamente, in misura tale che non siamo neanche sicuri sia arrivato: ce l’aspettavamo? Non ce l’aspettavamo? Conta poco. È invece interessante che, dopo aver ingolfato la macchina narrativa del film, Park scelga di risolverlo in un genere desueto. Decision To Leave è un film intenzionalmente deludente, una delusione da applausi, che da un certo punto in poi lavora consapevolmente sul raffreddamento delle aspettative degli spettatori per spostare l’attenzione su altro: magari sul personaggio, assolutamente reale - nel senso di autentico - della protagonista, o sui meccanismi mentali che ci portano a sospettare anche delle persone a cui teniamo di più (ma per esaminare questi aspetti ci vorrebbero altri due articoli). È lo stesso modo in cui Glass Onion si risolve nell’ovvio per suscitare una riflessione sui meccanismi di fruizione del whodunit. Magari vi siete imbattuti in materiale promozionale che descrive Decision To Leave come “una detective story ricca di colpi di scena”. Vorrei deludervi: non si tratta di questo, vi consiglio di non andare al cinema pensando di vedere questo. Sarebbe un peccato. Quindi elaborate la delusione fin da subito, perché oltre ai colpi di scena c’è tantissimo - e questa è la parte non deludente.