Outcast

View Original

Cowboy Bebop e il mio enorme errore di valutazione

Al contrario di Mario Marino o di Federico Molinari, nel 1999, quando MTV iniziò a trasmettere Cowboy Bebop, non avevo più sette o otto anni ma bensì ventisei. Esatto, avevo ventisei anni e iniziavo a muovermi nel mondo del lavoro. In quel momento di grandi cambiamenti nella mia vita, ricordo che per puro caso, ignorandone completamente l’esistenza, avevo visto un paio di episodi di Cowboy Bebop. Se non ricordo male, una delle due puntate era quella in cui Ein, il cane, si univa a Spike e Jet, e sinceramente non la trovai esaltante. Mi era sembrato tutto troppo scherzoso: battute, personaggi simpatici, un po’ stereotipati, e senza accorgermene, avevo appena dato uno fra i giudizi più sbagliati della mia vita.

Molto tempo dopo, direi circa cinque anni, forse per la voglia di fantascienza un po’ diversa dal solito, forse perché, una volta rotto con la tipa di allora, ero in un periodo in cui finalmente potevo fare quello che volevo a casa mia, ho recuperato l’intera serie, 26 episodi come Evangelion, e me li sono sparati a fuoco nel giro di un weekend e qualche sera.

Diciamo che lì ho capito l’errore madornale di giudizio commesso tempo prima e di colpo Cowboy Bebop è diventato per me una serie icona come poche altre, tipo Evangelion, appunto, o il primo, storico, Lupin.

Ecco, dal mio punto di vista Spike è il Lupin III delle generazioni dopo la mia. Con quella figura longilinea, quel disegno delle scarpe , il bavero costantemente alzato, l’essere un uomo che vive sul filo del rasoio tra il bene e il male ma in realtà è un cuore d’oro (ma capace di essere un duro come pochi, quando serve). Insieme al lui c’è Jet Black, che ho sempre vissuto come una sorta di fusione tra Jigen e Goemon. Un duro vero, senza se e senza ma, che sopporta e asseconda le decisioni di Spike. E poi non può mancare la Fujiko di turno, ovvero Faye Valentine: bellissima, letale e, al contrario dell’amore di Lupin, per nulla subdola e manipolatrice ma molto concreta e diretta, una donna che sa cosa vuole.

Quello che non avevo capito, da quel paio di episodi che avevo visto all’inizio dell’avventura con Spike e soci, è che Cowboy Bebop era un’opera molto più profonda e complessa di quanto quell’oretta mi avesse fatto presagire. Tutti, ma proprio tutti i personaggi, anche il cane di cui sopra, hanno un passato da cui fuggono, attriti interiori, una nemesi che può essere una persona, un ricordo o uno stato d’animo. Cowboy Bebop è un noir a colori ambientato nello spazio, con personaggi strepitosamente caratterizzati e quel finale… mamma mia quel finale.

Voglio utilizzare questo spazio, però, per lamentarmi della malsana idea di trasporre le (dis)avventure di Spike e soci in live action. È notizia di ieri (mentre sto scrivendo è il 23 febbraio) che le riprese della già annunciata serie TV tratta dall’anime di Shin'ichirō Watanabe inizieranno in estate. Ora, dopo l’agghiacciante film tratto da Death Note, dovrebbe esserci una legge, una regola, insomma un qualcosa, che impedisca operazioni simili.

Perché rischiare di fare un ennesimo buco nell’acqua? Perché andare a voler fare una serie dal vivo che per ovvi motivi, visto il setting, necessità di budget di altissimo livello per non sembrare da poveracci?

Mi è stato fatto notare che mentre Death Note era un film (per altro, la serie originale aveva ben 37 puntate), Cowboy Bebop sarà una serie e Netflix ha dimostrato che è molo più a suo agio in questo campo che nei lungometraggi. Vero, ma visti i livelli di di Nightflyers, permettetemi di avere qualche dubbio.

Comunque vada, e spero vada bene, la bellezza cristallina della serie animata non potrà assolutamente essere corrotta da qualsiasi bizzarra trasposizione. E niente e nessuno riusciranno a non farmi pensare che Spike e Lupin siano la stessa persona, solo in universi molto lontani tra loro.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.