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Chernobyl fa male, e per questo bisogna guardarla

Si fa sempre un gran parlare di questo continuo annullamento delle distanze fra serie TV e cinema, con le serie che diventano sempre più simili ai film e viceversa, in questo abbraccio dai più descritto con tono apocalittico e che inizialmente, almeno nelle intenzioni, avrei voluto smentire nell’incipit di questo articolo, citando nomi tipo quello di Henry Jenkins per dire che sì, la cultura converge, ma tautologicamente una serie TV rimane una serie TV e di riflesso vale lo stesso anche per un film. Ma sono discorsi complicati da fare, e pure noiosi, quindi passiamo direttamente al punto: Chernobyl è la prima serie TV che per davvero somiglia a un film. Non fidatevi di chi vi dice il contrario, che ormai questa è una tendenza consolidata. Giusto per tornare sull’argomento: in occasione della stagione conclusiva de Il trono di Spade, i più, contrariati per la deriva intrapresa dalla serie, hanno indicato come causa del presunto dissesto narrativo proprio questa suddetta deriva cinematografica (“Sì, bella la fotografia, MA”, quel MA che lascia presagire il peggio possibile); deriva riscontrabile, ma in parte, ecco. Nel budget, soprattutto, e quindi a livello visivo in modo più lampante, ma per il resto, Il Trono di Spade è rimasto, anche nella sua stagione conclusiva, una serie TV fino al midollo, e se vi ha fatto cagare non è di certo perché somiglia più a un film che ad altro. Chernobyl è invece sì similissimo a quello che di solito si vede al cinema, ma va bene così.

Lo è banalmente per il formato, cinque puntate da circa un’ora ciascuna, un lungo film, in pratica, ma lo è soprattutto in termini narrativi. Guardandolo, non ho potuto fare a meno che pensare a due cose: a The Americans e a un film di Spielberg, di quelli grossi, dal taglio piacevolmente moraleggiante. The Americans, per come ha raccontato meravigliosamente l’ultimo spezzone della Guerra fredda, attraverso la vita di coppia di due spie del KGB che con i propri sguardi, i propri trascorsi segreti e le proprie azioni dicevano moltissimo sull’Unione Sovietica dell’epoca, pur ambientandovi in questo immenso territorio appena una manciata di scene in totale; ma soprattutto, il merito di The Americans è stato quello di aver raccontato le due facce della medaglia, quella sovietica e quella statunitense, mantenendo tuttavia la barra a dritta dell’ideologia comunista che, fra alti e bassi, guidava le azioni di Philip ed Elizabeth Jennings. Poi, certo, è una serie americana e, alla fine della fiera, il tutto propendeva verso il lato statunitense della barricata, pur non scadendo mai nella propaganda, ma c’era comunque un tentativo di lanciare uno squarcio nell’umanità e nei sentimenti trincerati oltre la cortina di ferro. Si tratta di tutta una serie di dettagli che è stato possibile snocciolare proprio perché The Americans è stata trasmessa in sei stagioni, per un totale di settantacinque episodi da quarantacinque minuti ciascuno. La tipica narrazione fiume delle serie TV. Un botto di tempo, insomma.

In tal senso, Chernobyl è molto più simile, come anticipato, a uno di quei grossi film di Spielberg, tipo The Post, per citarne giusto l’ultimo in ordine di tempo, in cui le sfumature fra bianco e nero sono sempre facilissime da individuare, e quindi ci si concentra a raccontare solo quelle più funzionali alla storia da raccontare. In questo caso, la storia è l’esplosione avvenuta nella centrale nucleare di Chernobyl nel 1986, in una ricostruzione storica che ondeggia costantemente fra fiction e documentario, con l’odierna Russia che ne esce fuori moralmente con le ossa rotte – anche se credo non abbia granché senso parlare di morale all’interno di un paese governato da chi propugna la proliferazione di Stati illiberali. Ecco, sì, l’ho appena buttata in politica, ma è inevitabile, per quello di cui parla Chernobyl: politica e, più nello specifico, malapolitica di un regime che ha dimostrato, in occasione del suddetto disastro atomico, di subordinare la vita dei propri cittadini ai fini di un racconto falso, intriso di un letale miscela di corruzione e menzogne, col fine di costruire una narrazione dell’Unione Sovietica per nulla in linea con le effettive condizioni di povertà vissute dal cosiddetto proletariato, sempre e comunque pedine da sacrificare senza remore nel momento del bisogno.

Cast eccezionale, ma va be’, ormai è la norma, quando c’è in ballo HBO.

Un taglio, quello assunto dalla serie, che è dunque parecchio canonico per un certo genere di cinema ma che trova comunque  la propria personalità attraverso la narrazione di storie di chi la vicenda del disastro di Chernobyl l’ha vissuta sulla propria pelle. Alcuni per una manciata di istanti, che si sono rivelati fatali, mentre altri per un periodo più prolungato, che coincide con le cinque puntate di cui la serie si compone, ma tutti collegati da un unico comune denominatore: quello di un disastro immane, mostruoso e orrorifico per le conseguenze, veicolato da chi si è sacrificato per porre rimedio agli errori di politici assetati di potere. In tal senso, Chernobyl è meno affilato rispetto a un già citato film di Spielberg, con gli indubbi errori dell’Unione Sovietica che non lasciano spazio alcuno a sfumature o interpretazioni di sorta, ma ha comunque il merito di porsi su un piano molto simile a quello del regista dello Squalo, mettendo in piedi una serie TV che emoziona, dall’inizio alla fine, attraverso un linguaggio che, pur indugiando sull’orrore respingente del disastro atomico, ha il merito di riuscire a parlare a un’amplissima fetta di pubblico, come testimoniano i record d’ascolti registrati in tutto il mondo. E non è affatto poco.

Ho guardato Chernobyl settimanalmente, in lingua originale, su NowTV. Premettendo che, purtroppo, non mi hanno pagato, ci tengo a spendere qualche riga di elogio sul servizio streaming di proprietà di Sky, che ha fatto dei passi da gigante negli ultimi tempi. Non solo hanno aggiunto la possibilità di selezionare la lingua originale di praticamente ogni contenuto, ma in generale l’applicazione è molto migliorata e, soprattutto, ogni serie è presente nel formato di cofanetto, con cioè tutte le sue stagioni finora uscite, non quindi come avveniva in passato, quando magari ti ritrovavi le ultime due stagioni di Six Feet Under senza però poter guardare quelle precedenti. Il prezzo resta ancora un po’ alto (18 € al mese per film e serie TV in HD, magari da dimezzare in condivisione con un amico), ma è tutto sommato giustificato dal catalogo, aggiornato quotidianamente, messo a disposizione dall’amplissimo portfolio che Sky ha in dotazione; senza contare, poi, che in fin dei conti Netflix non è più neanche così economico.